Nato da umile famiglia Vincenzo rimase orfano del padre, ed ancora adolescente fu portato a Napoli come paggio alla corte del Principe di Modena e Francavilla Fontana Michele Imperiali, gentiluomo di camera di S.M. il Re delle due Sicilie. Appena maggiorenne, Corrado entrò a far parte della Congregazione dei Padri Celestini dove si specializzò negli studi di matematica, astronomia, filosofia, scienze naturali e arte culinaria. Vissuto fra il sette e l’ottocento, come capo dei Servizi di Bocca del suo principe, diventò il faro della cucina moderna nobile deliziando gli ospiti con opulenta ospitalità. Il Corrado è stato il primo autore napoletano di un manuale organico di gastronomia. Il suo trattato “il Cuoco Galante” comparso a Napoli nel 1773, non oppose pregiudiziali al lessico gastronomico francese a quei tempi dominante, ma nel complesso si mantenne fedele alla pratica tradizionale della cucina italiana, e in particolare napoletana, rivelando lo sforzo di voler integrare le cucine forestiere a quella locale, servendosi di una scrittura semplice, concisa ed esauriente. La materia del manuale è riportata in capitoli di una certa ampiezza, ciascuno dedicato ad un argomento (minestre, carni domestiche e selvatiche, pesci, uova, latticini, verdure, crostate, dolci, sapori, conserve) a sua volta suddiviso in brevi paragrafi nei quali si prescrivono i modi di cucinare le vivande. “Il cuoco galante” ebbe larga fortuna come testimoniano le numerose edizioni e ristampe giunte fino alla metà dell’ottocento. Di Vincenzo Corrado sono anche da ricordare altri libri come: “Del Cibo Pitagorico” e “Il Credenziere di buon gusto”, quest’ultimo pubblicato nel 1778 a Napoli e più volte ristampato con l’ampliamento di due “trattati storici” sulla cioccolata e il caffè (edizione 1820).
Tartufi di grasso di Vincenzo Corrado
Con Vincenzo Corrado, siamo a una vera e propria svolta per quanto riguarda l’utilizzo del tartufo nell'alta cucina italiana, in perfetta sintonia con quella di altre cucine europee e anticipatrice delle preparazioni regionali.
Ingredienti
Fianchetto di vitello – carne macinata – aglio – capperi – erbe aromatiche – tartufo – prosciutto – lardo – cipolle - sale – pepe
Ricetta
Preparare una composto con carne macinata di vitello, battuto d’aglio, capperi, erbe aromatiche, scaglie di tartufo, prosciutto tritato.
Prendere un fianchetto di maiale, pillottarlo con il composto, cospargerlo di sale e pepe e lardellarlo.
Passare la pietanza in forno accompagnata da cipolle intere.
Servire il fianchetto di vitello in pezzi, guarnito delle cipolle, e irrorato del fondo di cottura.
Salsa di tartufi di magro di Vincenzo Corrado
Cotti i tartufi sotto le braci, sipestano con bottariche ed uno spicchio d'aglio, e sciolto tutto con olio e sugo di limone; e passato per setaccio si avrà la salsa.
Torta di acciughe fresche di Vincenzo Corrado
Spaccate l'Acciughe, e cavatane la spina, si condiranno d'Acciughe salate, tartufi triti, erbette, bottarriche, olio, latte di pignoli, e sugo di limone. Se ne formerà una torta con farsa sotto di spinaci, passati con olio ed aglio, e si servirà caldo.
Pasticcio di spigola di Vincenzo Corrado
Squamata che sarà la Spigola, si caverà dalla parte della schiena la spina, e parte di carne, e si riempirà d'un ragù d'animelle, tartufi, code di Gambari, ed erbe. Dopo si metterà nella pasta con farsa sotto e sopra di carne e grasso di Vitello, e carne parimenti cii Spigola; si coprirà con fette di lardo presciutto, e pasta, e si cuocerà; e così si servirà.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Il blog senza pretese di Cucina - Fotografia - Musica e Poesia

mercoledì 29 giugno 2011
lunedì 27 giugno 2011
Budino alle amarene
Ingredienti per 6 persone
6 Fogli di Colla Di Pesce
4 Tuorli D'uovo
50 g di Farina
50 Cl di Latte
1 Bustina di Vaniglina
220 g di Zucchero
200 g di Amarene Sciroppate
50 Cl di Panna
Ricetta
Fate ammorbidire in acqua fredda la colla di pesce. Nel frattempo mettete in una terrina i tuorli: unite la farina e frullate, mescolando bene con un cucchiaio di legno per stemperare i grumi. Fate bollire il latte con la vaniglina e lo zucchero, quindi versate poco alla volta sul composto sbattendo con una frusta. Quando il tutto sarà ben diluito, versatelo in una casseruola e ponetelo a fuoco basso. continuate a rimestare lasciandolo sul fornello fino a che non accennerà a bollire. Togliete immediatamente la crema dal fuoco ed incorporatevi la colla di pesce che avrete ben strizzato. Mescolate fino a che non si sarà completamente sciolta, quindi aggiungete le amarene, ben sgocciolate dallo sciroppo, e rimestate. Lasciate intiepidire e nel frattempo montate la panna: quando il composto sarà completamente freddo incorporate la panna delicatamente per non smontarla. Bagnate uno stampo da budino dalle pareti scannellate e rovesciatevi dentro il composto, pareggiando la superficie con il dorso di un cucchiaio. Introducete in frigorifero per 3 ore. Al momento di servire immergete per qualche istante lo stampo in acqua bollente, asciugatelo e capovolgetelo sul piatto da portata, estraendo il budino alle amarene .
6 Fogli di Colla Di Pesce
4 Tuorli D'uovo
50 g di Farina
50 Cl di Latte
1 Bustina di Vaniglina
220 g di Zucchero
200 g di Amarene Sciroppate
50 Cl di Panna
Ricetta
Fate ammorbidire in acqua fredda la colla di pesce. Nel frattempo mettete in una terrina i tuorli: unite la farina e frullate, mescolando bene con un cucchiaio di legno per stemperare i grumi. Fate bollire il latte con la vaniglina e lo zucchero, quindi versate poco alla volta sul composto sbattendo con una frusta. Quando il tutto sarà ben diluito, versatelo in una casseruola e ponetelo a fuoco basso. continuate a rimestare lasciandolo sul fornello fino a che non accennerà a bollire. Togliete immediatamente la crema dal fuoco ed incorporatevi la colla di pesce che avrete ben strizzato. Mescolate fino a che non si sarà completamente sciolta, quindi aggiungete le amarene, ben sgocciolate dallo sciroppo, e rimestate. Lasciate intiepidire e nel frattempo montate la panna: quando il composto sarà completamente freddo incorporate la panna delicatamente per non smontarla. Bagnate uno stampo da budino dalle pareti scannellate e rovesciatevi dentro il composto, pareggiando la superficie con il dorso di un cucchiaio. Introducete in frigorifero per 3 ore. Al momento di servire immergete per qualche istante lo stampo in acqua bollente, asciugatelo e capovolgetelo sul piatto da portata, estraendo il budino alle amarene .
domenica 26 giugno 2011
Ubriaco di trementina e di lunghi baci
Ubriaco di trementina e di lunghi baci,
guido il veliero delle rose, estivo,
che volge verso la morte del giorno sottile,
posato sulla solida frenesia marina.
Pallido e ormeggiato alla mia acqua famelica
incrocio nell'acre odore del clima aperto,
ancora vestito di grigio e di suoni amari,
e di un cimiero triste di spuma abbandonata.
Vado, duro di passioni, in sella all'unica mia onda,
lunare, solare, ardente e freddo, repentino,
addormentato nella gola di felici
isole bianche e dolci come freschi fianchi.
Trema nella notte umida il mio abito di baci
follemente carico di impulsi elettrici,
diviso in modo eroico tra i miei sogni
e le rose inebrianti che con me si cimentano.
Controcorrente, in mezzo a onde esterne,
il tuo corpo parallelo si ferma tra le mie braccia
come un pesce per sempre incollato alla mia anima,
rapido e lento nell'energia subceleste.
Pablo Neruda
guido il veliero delle rose, estivo,
che volge verso la morte del giorno sottile,
posato sulla solida frenesia marina.
Pallido e ormeggiato alla mia acqua famelica
incrocio nell'acre odore del clima aperto,
ancora vestito di grigio e di suoni amari,
e di un cimiero triste di spuma abbandonata.
Vado, duro di passioni, in sella all'unica mia onda,
lunare, solare, ardente e freddo, repentino,
addormentato nella gola di felici
isole bianche e dolci come freschi fianchi.
Trema nella notte umida il mio abito di baci
follemente carico di impulsi elettrici,
diviso in modo eroico tra i miei sogni
e le rose inebrianti che con me si cimentano.
Controcorrente, in mezzo a onde esterne,
il tuo corpo parallelo si ferma tra le mie braccia
come un pesce per sempre incollato alla mia anima,
rapido e lento nell'energia subceleste.
Pablo Neruda
Niccolò Paganini divo al pomodoro
Niccolò Paganini, anche se di nascita umile, fu invogliato proprio dal padre allo studio della musica e del mandolino, dimostrando uno straordinario talento.
Grande violinista, compositore, esecutore e direttore d'orchestra,
fece vita movimentata e sregolata, morso dalla passione per il gioco d'azzardo e le avventure amorose che lo spingevano tra le braccia di principesse o di donne da taverna.
Personaggio irrequieto ed appassionato, si dedicò interamente alla musica come necessità vitale. Amico di Rossini e Donizetti, riscosse sempre un enorme successo negli oltre seicento concerti che tenne in tutta Europa.
Il suo virtuosismo assolutamente eccezionale, oltre a dargli fama, fece nascere numerose leggende sulle presunte qualità demoniache della sua arte.
Grazie ad un’innata capacità d’auto promozione, divenne un "divo" del violino in un’epoca in cui le celebrità erano i cantanti, e fra i suoi vezzi ricordiamo che utilizzava la carrozza come mezzo di trasporto.
L’espressione corrente “Paganini non ripete”, con la quale si esprime la negazione di replicare un gesto o una frase, venne coniata durante un’esibizione di Paganini di fronte al sovrano Carlo Felice (1825), quando il violinista rifiutò di eseguire il bis chiestogli dal re.
Sotto l’aspetto gastronomico Paganini è stato uno dei cultori e promotori dell’uso del pomodoro in cucina, in un’epoca durante la quale l’ortaggio rosso stava iniziando ad imporsi come alimento.
L’artista, oltre ai ventiquattro “Capricci” per violino, ha scritto di suo pugno anche la ricetta del sugo di manzo per i ravioli alla genovese, il cui manoscritto è oggi disponibile presso la Library del Congresso di Washington (USA).
Ravioli di Niccolò Paganini
Questa ricetta è stata ripresa proprio dal suo manoscritto.
“Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei fonghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il suco.
Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi.
Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima.
Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. Ecco fatto il pieno.
Potete servirvi del capone in luogo del vitello, dei laccetti in luogo di cervello, per ottenere un pieno piu’ delicato. Se il pieno restasse duro, si mette nel suco.
Per il ravioli, la pasta si lascia un poco molla. Si lascia per un’ora sotto coperta da un piato per ottenere le foglie sottili.”
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Grande violinista, compositore, esecutore e direttore d'orchestra,
fece vita movimentata e sregolata, morso dalla passione per il gioco d'azzardo e le avventure amorose che lo spingevano tra le braccia di principesse o di donne da taverna.
Personaggio irrequieto ed appassionato, si dedicò interamente alla musica come necessità vitale. Amico di Rossini e Donizetti, riscosse sempre un enorme successo negli oltre seicento concerti che tenne in tutta Europa.
Il suo virtuosismo assolutamente eccezionale, oltre a dargli fama, fece nascere numerose leggende sulle presunte qualità demoniache della sua arte.
Grazie ad un’innata capacità d’auto promozione, divenne un "divo" del violino in un’epoca in cui le celebrità erano i cantanti, e fra i suoi vezzi ricordiamo che utilizzava la carrozza come mezzo di trasporto.
L’espressione corrente “Paganini non ripete”, con la quale si esprime la negazione di replicare un gesto o una frase, venne coniata durante un’esibizione di Paganini di fronte al sovrano Carlo Felice (1825), quando il violinista rifiutò di eseguire il bis chiestogli dal re.
Sotto l’aspetto gastronomico Paganini è stato uno dei cultori e promotori dell’uso del pomodoro in cucina, in un’epoca durante la quale l’ortaggio rosso stava iniziando ad imporsi come alimento.
L’artista, oltre ai ventiquattro “Capricci” per violino, ha scritto di suo pugno anche la ricetta del sugo di manzo per i ravioli alla genovese, il cui manoscritto è oggi disponibile presso la Library del Congresso di Washington (USA).
Ravioli di Niccolò Paganini
Questa ricetta è stata ripresa proprio dal suo manoscritto.
“Per una libbra e mezza di farina due libbre di buon manzo magro per fare il suco. Nel tegame si mette del butirro, indi un poco di cipolla ben tritolata che soffrigga un poco. Si mette il manzo, e fare che prenda un po’ di colore. E per ottenere un suco consistente si prende poche prese di farina, ed adagio si semina in detto suco affinché prenda il colore. Poi si prende della conserva di pomodoro, si disfa nell’acqua, e di quest’acqua se ne versa entro alla farina che sta nel tegame e si mescola per scioglierla maggiormente, e per ultimo si pongono entro dei fonghi secchi ben tritolati e pestati; ed ecco fatto il suco.
Ora veniamo alla pasta per tirare le sfoglie senza ovi.
Un poco di sale entro la pasta gioverà alla consistenza della medesima.
Ora veniamo al pieno. Nello stesso tegame colla carne si fa in quel suco cuocere mezza libbra di vitella magra, poi si leva, si tritola e si pesta molto. Si prende un cervello di vitello, si cuoce nell’acqua, poi si cava la pelle che copre il cervello, si tritola e si pesta bene separatamente, si prende quattro soldi di salsiccia luganega, si cava la pelle, si tritola e si pesta separatamente. Si prende un pugno di borage chiamata in Nizza boraj, si fanno bollire, si premono molto, e si pestano come sopra. Si prendono tre ovi che bastano per una libbra e mezza di farina. Si sbattano, ed uniti e nuovamente pestati insieme tutti gli oggetti soprannominati, in detti ovi ponendovi un poco di formaggio parmigiano. Ecco fatto il pieno.
Potete servirvi del capone in luogo del vitello, dei laccetti in luogo di cervello, per ottenere un pieno piu’ delicato. Se il pieno restasse duro, si mette nel suco.
Per il ravioli, la pasta si lascia un poco molla. Si lascia per un’ora sotto coperta da un piato per ottenere le foglie sottili.”
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
venerdì 24 giugno 2011
Sformato di piselli e amaretti
Ingredienti per 6 persone
750 g di Piselli Sgusciati
60 g di Burro
3 Uova
2 Biscotti Amaretti
1 Mestolo di Brodo
1 Cucchiaio di Farina
Pangrattato
2 Cucchiai di Panna
1 Pizzico di Cannella
Sale
Ricetta
In una casseruola insaporite i piselli con metà burro. Aggiungete un mestolo di brodo e un pizzico di cannella. A cottura ultimata passate al mulinetto. In un tegame scaldate una noce di burro, versatevi il purè di piselli, cospargete con un cucchiaio di farina e fate asciugare mescolando. Unite gli amaretti polverizzati, due cucchiai di panna e tre tuorli. Fate raffreddare e incorporatevi gli albumi montati a neve. Versate in uno stampo imburrato e cosparso di pangrattato. Cuocete in forno a 180 gradi per 45 minuti circa. Servite.
750 g di Piselli Sgusciati
60 g di Burro
3 Uova
2 Biscotti Amaretti
1 Mestolo di Brodo
1 Cucchiaio di Farina
Pangrattato
2 Cucchiai di Panna
1 Pizzico di Cannella
Sale
Ricetta
In una casseruola insaporite i piselli con metà burro. Aggiungete un mestolo di brodo e un pizzico di cannella. A cottura ultimata passate al mulinetto. In un tegame scaldate una noce di burro, versatevi il purè di piselli, cospargete con un cucchiaio di farina e fate asciugare mescolando. Unite gli amaretti polverizzati, due cucchiai di panna e tre tuorli. Fate raffreddare e incorporatevi gli albumi montati a neve. Versate in uno stampo imburrato e cosparso di pangrattato. Cuocete in forno a 180 gradi per 45 minuti circa. Servite.
giovedì 23 giugno 2011
Il pane sciocco o sciapo
“Tu proverai si come sa di sale lo pane altrui…” (Dante XVII canto del Paradiso) Dante Alighieri, esiliato a Ravenna, con questa immortale metafora, fa notare che già in epoca medievale il pane toscano si distingueva da tutti gli altri.
Pane sciocco, senza sale, che i nostri avi crearono per una necessità. Questo alimento prese forma nel XII secolo, quando i pisani, in perenne conflitto con Firenze, bloccando il commercio del sale verso l’entroterra, ne fecero salire il prezzo alle stelle. L’azione costrinse i fornai a panificare senza sale, e le pagnotte ottenute, economiche ma molto versatili, ebbero un tale successo da diventare un simbolo della toscanità.
Per completezza vogliamo ricordare che il pane, la cui preparazione nell’antichità divideva i popoli civili da quelli barbari, in ogni tempo si è adeguato alle latitudini e alle disponibilità economiche delle varie comunità. La composizione della farina, l’elemento base, è sempre cambiata da zona a zona: frumento puro e miscelato o sostituito con il miglio, la segale, l’orzo, il mais, le castagne.
Nel cuore del Mediterraneo, là dove ebbe origine l’arte bianca (forse in Egitto, forse in Mesopotamia), per avvicinare i fedeli la cultura cristiana creò il miracolo eucaristico dell’Ultima Cena, dove il semplice pane diventò un alimento sacro, capace di mettere in contatto l’uomo con Dio.
La preghiera del Padre nostro con “…dacci oggi il nostro pane quotidiano”, invoca la provvidenza divina non solo per un cibo, ma perché protegga tutto il lavoro indispensabile ad ottenerlo.
Preparare la terra e seminare. Attendere la crescita.
Raccogliere le messi e batterle per isolarne il chicco dalla paglia.
Conservare le granaglie e macinarle (in passato con macine mosse dall’acqua o dal vento, oggi da un motore elettrico).
Amalgamare la farina con l’acqua e cuocerne l’impasto in forno. Tutte queste azioni sono la somma di abilità umane, da quella del contadino a quella della massaia, indispensabili a generare gusto, sapore e profumo.
Il pane sciocco, fatto solo d’acqua e farina, amatissimo dai cuochi, è perfetto per accompagnare ogni alimento, e rappresenta il più diffuso tra i pani italiani.
Nella nostra cucina comincia facendosi fett’unta, per diventare crostino e sposare i salumi. Si eleva nella pappa al pomodoro o la ribollita, per sublimarsi nella panzanella o la panata.
Non dobbiamo dimenticarci anche delle numerose interpretazioni territoriali, diverse per forma, consistenza e sapore. Non c’è solo il generico pane toscano, ma anche quello di Rimbocchi, di Montagnano, di Altopascio, a pasta dura o morbida, schiacciato o alto, semplice o arricchito con frutta secca o erbe aromatiche.
Torta di pane con mele e frutta secca
Per 8 porzioni
INGREDIENTI
450g di pane raffermo - 4 mele - 3 uova - 250g di latte- 100g di zucchero - 70g di uvetta passa - 30g di pinoli- 1 bicchierino di liquore (rum, vin santo…) – burro - pan grattato
PREPARAZIONE
Tagliare il pane a fette sottili e metterle a bagno nel latte tiepido per un po’. Ammollare anche l’uvetta in acqua tiepida. Sbucciare e tagliare le mele a fettine sottili. Separare i tuorli dagli albumi e montare questi ultimi a neve. Amalgamare i tuorli con lo zucchero, quindi aggiungere il pane leggermente strizzato, l’uvetta, i pinoli ed il liquore. Unire le mele tagliate ed infine gli albumi montati. A questo punto imburrare e cospargere una tortiera con il pangrattato. Versare l’impasto nella teglia e cuocere in forno a 170° per 50 minuti circa. Sformare e servire la torta calda… o fredda.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Pane sciocco, senza sale, che i nostri avi crearono per una necessità. Questo alimento prese forma nel XII secolo, quando i pisani, in perenne conflitto con Firenze, bloccando il commercio del sale verso l’entroterra, ne fecero salire il prezzo alle stelle. L’azione costrinse i fornai a panificare senza sale, e le pagnotte ottenute, economiche ma molto versatili, ebbero un tale successo da diventare un simbolo della toscanità.
Per completezza vogliamo ricordare che il pane, la cui preparazione nell’antichità divideva i popoli civili da quelli barbari, in ogni tempo si è adeguato alle latitudini e alle disponibilità economiche delle varie comunità. La composizione della farina, l’elemento base, è sempre cambiata da zona a zona: frumento puro e miscelato o sostituito con il miglio, la segale, l’orzo, il mais, le castagne.
Nel cuore del Mediterraneo, là dove ebbe origine l’arte bianca (forse in Egitto, forse in Mesopotamia), per avvicinare i fedeli la cultura cristiana creò il miracolo eucaristico dell’Ultima Cena, dove il semplice pane diventò un alimento sacro, capace di mettere in contatto l’uomo con Dio.
La preghiera del Padre nostro con “…dacci oggi il nostro pane quotidiano”, invoca la provvidenza divina non solo per un cibo, ma perché protegga tutto il lavoro indispensabile ad ottenerlo.
Preparare la terra e seminare. Attendere la crescita.
Raccogliere le messi e batterle per isolarne il chicco dalla paglia.
Conservare le granaglie e macinarle (in passato con macine mosse dall’acqua o dal vento, oggi da un motore elettrico).
Amalgamare la farina con l’acqua e cuocerne l’impasto in forno. Tutte queste azioni sono la somma di abilità umane, da quella del contadino a quella della massaia, indispensabili a generare gusto, sapore e profumo.
Il pane sciocco, fatto solo d’acqua e farina, amatissimo dai cuochi, è perfetto per accompagnare ogni alimento, e rappresenta il più diffuso tra i pani italiani.
Nella nostra cucina comincia facendosi fett’unta, per diventare crostino e sposare i salumi. Si eleva nella pappa al pomodoro o la ribollita, per sublimarsi nella panzanella o la panata.
Non dobbiamo dimenticarci anche delle numerose interpretazioni territoriali, diverse per forma, consistenza e sapore. Non c’è solo il generico pane toscano, ma anche quello di Rimbocchi, di Montagnano, di Altopascio, a pasta dura o morbida, schiacciato o alto, semplice o arricchito con frutta secca o erbe aromatiche.
Torta di pane con mele e frutta secca
Per 8 porzioni
INGREDIENTI
450g di pane raffermo - 4 mele - 3 uova - 250g di latte- 100g di zucchero - 70g di uvetta passa - 30g di pinoli- 1 bicchierino di liquore (rum, vin santo…) – burro - pan grattato
PREPARAZIONE
Tagliare il pane a fette sottili e metterle a bagno nel latte tiepido per un po’. Ammollare anche l’uvetta in acqua tiepida. Sbucciare e tagliare le mele a fettine sottili. Separare i tuorli dagli albumi e montare questi ultimi a neve. Amalgamare i tuorli con lo zucchero, quindi aggiungere il pane leggermente strizzato, l’uvetta, i pinoli ed il liquore. Unire le mele tagliate ed infine gli albumi montati. A questo punto imburrare e cospargere una tortiera con il pangrattato. Versare l’impasto nella teglia e cuocere in forno a 170° per 50 minuti circa. Sformare e servire la torta calda… o fredda.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
martedì 21 giugno 2011
TACCI SUA!!!
Disastro Amy Winehouse: non riesce a cantare, tour cancellato, compresa quella italiana prevista a Lucca il 16 luglio, per il Summer Festival.( E te pareva!!!) La odio e la amo.
lunedì 20 giugno 2011
Il cibo nei romanzi
Perfino io sono capace di friggere una bistecca, e mi ci misi di gusto. Che gioia inalare il profumo del burro fuso, sentire il melodioso sfrigolio del manzo che cuoce. Rivoltai le bistecche nel loro sugo. Le cosparsi appena di sale. Mi venne perfino l'ispirazione di schiacciare uno spicchio d'aglio, usando il mortaio di Harry. Forse c'era davvero qualcosa di un po' Zen in questa faccenda della cucina. In breve, sentii ciò che provava Harry quando sapeva che un piatto sarebbe stato perfetto, quando lo portava in tavola con occhi lucenti.
Kay-Marie James ( Le maniglie dell'amore )
Kay-Marie James ( Le maniglie dell'amore )
domenica 19 giugno 2011
sabato 18 giugno 2011
PRANZO DI NOZZE (Gustave Flaubert )
La tavola era stata apparecchiata sotto la tettoia della rimessa. C'eran sopra quattro lombi di bue, sei polli arrosto, del vitello in umido, tre cosciotti di montone, e in mezzo un bel maialino da latte, fiancheggiato da quattro salsicciotti. Negli angoli si ergevano le caraffe dell'acquavite. Il sidro dolce in bottiglia spumeggiava attorno ai tappi, i bicchieri erano già stati riempiti in precedenza sino all'orlo. Grandi piatti di crema gialla che tremavano alla più lieve scossa della tavola presentavano le iniziali degli sposi, disegnate sulla loro superficie unite con arabeschi sottilissimi. Per le torte e i mandorlati si era fatto venire apposta un pasticciere di Yvetot. Nuovo del paese, aveva preparato le cose con un'attenzione particolare, e presentò in persona al termine del pranzo un'alzata che sollevò grandi grida d'ammirazione. Alla base c'era, per prima cosa, un quadrato di cartone blu raffigurante un tempio con portici, colonnati e statuette di stucco tutto in giro in nicchie tempestate di stelle di carta dorata; al secondo ripiano invece s'ergeva un torrione di pasta di savoiardi circondato da piccole fortificazioni in angelica, mandorle, uva secca, spicchi d'arancio, e sull'ultima piattaforma infine, formata da una prateria verde con rocce, laghi di marmellata e barchette di gusci di nocciole, si vedeva un Amorino che si dondolava su di un'altalena di cioccolata.
venerdì 17 giugno 2011
Tre ricettine con i fichi
Fichi ripieni
Ingredienti per 4 persone
8 Fichi Ben Sodi
2 Cucchiai di Pinoli
2 Cucchiai di Mandorle Tritate
2 Albumi D'uovo
2 Biscotti Amaretti
2 Cucchiai di Zucchero
Ricetta
Lavare i fichi e inciderli al centro aprendoli un po'. Tostare pinoli e mandorle in un padellino antiaderente. Montare a neve ferma gli albumi e incorporarvi i pinoli, le mandorle, lo zucchero e gli amaretti sbriciolati. Poggiare i fichi su una placca da forno e riempirli con il composto. Infornare per 15 minuti a 200 gradi, finché gli albumi non saranno ben dorati.
Stuzzichini ai fichi
Ingredienti per 4 persone
12 Crackers Tondi
10 Fichi Verdi Maturi
120 g di Formaggio Robiola
2 Cucchiai di Gherigli Di Noci Tritati
2 Cucchiai di Vodka
Sale
Paprica
Ricetta
La prima cosa da fare è sbucciare i fichi, dopodichè, riunite la polpa in una ciotola capiente e aggiungete poco per volta il formaggio e la vodka. Mescolate bene il tutto fino ad ottenere un composto omogeneo e per finire, incorporate il sale, la paprica e i gherigli di noci tritati. Mescolate ancora un po' e spalmate la cremina ottenuta sui crackers freschi e croccanti. Servite subito.
Insalata con i fichi
Ingredienti per 4 persone
8 Fichi Neri Maturi
1 Mazzetto di Insalata Rucola
100 g di Salame Tipo Cacciatore
4 Cesti di Insalata Belga (indivia)
8 Cucchiai Olio D'oliva Extra-vergine
Sale
1 Spolverata di Pepe Nero
1/2 Limone (succo)
Ricetta
Lavate la rucola e tritatela grossolanamente, pulite l'insalata tagliandola a listarelle. Tagliate i fichi a fettine e il salame a tocchetti. Preparate il condimento emulsionando l'olio, il succo di limone e il sale. Condite l'insalata e completate con una spolverata di pepe nero appena macinato.
Ingredienti per 4 persone
8 Fichi Ben Sodi
2 Cucchiai di Pinoli
2 Cucchiai di Mandorle Tritate
2 Albumi D'uovo
2 Biscotti Amaretti
2 Cucchiai di Zucchero
Ricetta
Lavare i fichi e inciderli al centro aprendoli un po'. Tostare pinoli e mandorle in un padellino antiaderente. Montare a neve ferma gli albumi e incorporarvi i pinoli, le mandorle, lo zucchero e gli amaretti sbriciolati. Poggiare i fichi su una placca da forno e riempirli con il composto. Infornare per 15 minuti a 200 gradi, finché gli albumi non saranno ben dorati.
Stuzzichini ai fichi
Ingredienti per 4 persone
12 Crackers Tondi
10 Fichi Verdi Maturi
120 g di Formaggio Robiola
2 Cucchiai di Gherigli Di Noci Tritati
2 Cucchiai di Vodka
Sale
Paprica
Ricetta
La prima cosa da fare è sbucciare i fichi, dopodichè, riunite la polpa in una ciotola capiente e aggiungete poco per volta il formaggio e la vodka. Mescolate bene il tutto fino ad ottenere un composto omogeneo e per finire, incorporate il sale, la paprica e i gherigli di noci tritati. Mescolate ancora un po' e spalmate la cremina ottenuta sui crackers freschi e croccanti. Servite subito.
Insalata con i fichi
Ingredienti per 4 persone
8 Fichi Neri Maturi
1 Mazzetto di Insalata Rucola
100 g di Salame Tipo Cacciatore
4 Cesti di Insalata Belga (indivia)
8 Cucchiai Olio D'oliva Extra-vergine
Sale
1 Spolverata di Pepe Nero
1/2 Limone (succo)
Ricetta
Lavate la rucola e tritatela grossolanamente, pulite l'insalata tagliandola a listarelle. Tagliate i fichi a fettine e il salame a tocchetti. Preparate il condimento emulsionando l'olio, il succo di limone e il sale. Condite l'insalata e completate con una spolverata di pepe nero appena macinato.
giovedì 16 giugno 2011
Polenta condita ( Carlo Goldoni )
Quando sarà condensata, la leveremo dal fuoco e tutt'è due di concerto, con un cucchiaio per uno, la faremo passare dalla caldaia a un piatto, vi cacceremo sopra, di mano in mano, un'abbondante porzione di fresco, giallo e delicato butirro, poi altrettanto grasso, giallo e ben grattato formaggio.
mercoledì 15 giugno 2011
Il cibo nei romanzi
Quel sabato mattina, a mezzogiorno in punto, sostiene Pereira, il telefono squillò. Quel giorno Pereira non si era portato in redazione il suo pane e frittata, da una parte perché tentava di saltare ogni tanto un pasto come gli aveva consigliato il cardiologo, d'altra parte perché, se non avesse resistito alla fame, avrebbe sempre potuto mangiare un'omelette al Café Orquìdea.
Antonio Tabucchi ( Sostiene Pereira )
Antonio Tabucchi ( Sostiene Pereira )
Ricette (primi piatti estivi)
Risotto al melone
Ingredienti per 4 persone
350 g di Riso , 1 Melone , 60 g di Burro ,70 g di Prosciutto Cotto , 1/2 Cipolla , Brodo , Vino Bianco Secco , Sale , Pepe Bianco In Grani
Preparazione:
Far soffriggere in una casseruola metà burro con la cipolla, unire il riso, bagnare con il vino e il brodo e portare a cottura. Soffriggere nel rimanente burro il prosciutto e il melone tagliati a dadini, unirli al riso poco prima del termine di cottura, regolare di sale, pepare, mescolare bene e servire.
martedì 14 giugno 2011
Il cibo nei romanzi
Non si può dire che i francesi abbiano un atteggiamento sentimentale nei confronti del cibo che mangiano, ma è certo che amano circondare di un'aura di felicità tutto ciò che si apprestano a mangiare
(le fortunate creature dovrebbero capire che i francesi fanno loro un grande complimento ritenendole degne di essere mangiate).
Peter Mayle (Lezioni di francese: avventure con coltello, forchetta e flute )
(le fortunate creature dovrebbero capire che i francesi fanno loro un grande complimento ritenendole degne di essere mangiate).
Peter Mayle (Lezioni di francese: avventure con coltello, forchetta e flute )
POLONIA cucina di zuppe e minestre
Oggi le diverse ricette regionali sono dominate da patate, crauti, cetrioli, farine di cereali, funghi essiccati e marinati e latte acido, ma anche da una grande ricchezza di carne. Tutti i cibi sono preparati in maniera tradizionale, usando ingredienti freschi.
La cucina dell’area è assimilabile a quella dell'Europa Centrale, e non mancano quindi le influenze di quello che una volta fu l'Impero Austro Ungarico. La tradizione polacca prevede pasti molto nutrienti nella prima parte della giornata con una cena molto leggera e unisce sostanziosi piatti di carne ad un uso accurato delle spezie.
Nel corso del Medioevo la segale invernale, che occupava dal 30 al 60 per cento della terra coltivata, ebbe il ruolo più importante nell' alimentazione dei polacchi; subito dopo veniva l'avena con il 25-35 per cento. Il pane più usato era lo scuro pane integrale di segale. Minestre e zuppe, fatte soprattutto con grano saraceno e orzo, avevano un posto di rilievo nella dieta quotidiana; la verdura più consumata era il cavolo, seguito da pastinaca, carote, rape, cipolle e, in misura molto minore, cetrioli, fagioli, lenticchie, prezzemolo, papavero e piselli, la cui popolarità era in ascesa.
Piatti tradizionali noti fin dall'inizio del Medioevo erano i cavoli cucinati con kasha (crema a base di cereali), carne, pesce o piselli; i fagioli, le carote, le barbabietole o le rape stufate o fritte. Spezie ed erbe locali usate in cucina erano il cumino, i semi di senape, la barbaforte e l'aceto. Nel corso del secolo XVI la Polonia subì la forte influenza dell'Europa occidentale. I polacchi che si recavano all'estero ritornavano con nuove piante: sedano, porri, cavolfiore, cavolo rapa, finocchio, insalate e altro. L'intensificazione dei commerci portò l'olio d'oliva, i frutti del Mediterraneo (uva passa, castagne, mandorle, fichi, agrumi) e spezie (pepe, zafferano, zenzero, cannella, noce moscata eccetera). L'importazione di generi coloniali decuplicò tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento, ma naturalmente furono le classi privilegiate a beneficiare di queste novità.
Tradizionalmente, l'allevamento del bestiame in Polonia era l'attività economicamente più importante; nella seconda metà del secolo XVI si verificò una rapida crescita dell'allevamento di maiali. Aveva una certa importanza anche il pollame - galline, oche, anatre e, dalla fine del Cinquecento, tacchini. La pesca e il consumo di pesci erano considerevoli, grazie ai numerosi bacini naturali e alle peschiere in cui si allevavano soprattutto carpe. Il consumo di birra crebbe costantemente soprattutto dopo il secolo XV. Si beveva calda o fredda, chiara o scura, debole o forte, ma mediamente con un tenore alcolico di due o tre gradi. Cresceva anche il consumo di vodka: bevande molto rustiche per la povera gente, acquaviti aromatizzate con erbe, anisette, cannella, scorza d'arancia e così via per le classi alte e medie.
L'Ottocento portò con sé i cambiamenti più importanti nella struttura dell'alimentazione. L'inizio dell' agricoltura moderna e gli studi di agronomia aumentarono le rese e la disponibilità di varie materie prime; la produzione di cereali fu più che triplicata. L'apertura di stabilimenti per produrre zucchero di barbabietola, farine per il mercato, alcolici e birre, olio, amidacei, lieviti, aceto, prodotti da forno, cioccolato, bevande analcoliche e gelatina comportò cambiamenti di rilievo nella preparazione domestica dei piatti.
La Polonia è stato l'unico paese dell'Europa orientale in cui i modelli alimentari fondamentali sono stati profondamente influenzati dalla modernizzazione. Nel corso dei secoli, la trasformazione dell'alimentazione ha inciso su tutte le classi sociali, ma in modo diverso. La famiglia contadina povera poteva trovarsi per il pranzo solo un misero brodo fatto con acqua calda, sale e prezzemolo. La dieta di una famiglia contadina del ceto medio della regione di Poznan a metà Ottocento era costituita da zur (borsht bianco, la minestra acida polacca) con patate e pane o patate passate con latte a colazione, piselli con cavoli e pane o gnocchetti di pasta con kvas a pranzo e gnocchetti di pasta cotti nel latte o nel kvas e pane per cena. I lavoratori salariati e le loro famiglie consumavano pane, piselli, kasha o patate, birra, vodka, aringhe. Il pranzo tradizionale in una famiglia ricca era costituito da qualche minestra come primo - un brodo o un borsht (barszcz) - seguita dalla carne: bigos con cavoli, oca con panna e funghi secchi, tacchino, montone con aglio, zampa di bue in gelatina, pancetta affumicata, maiale, salsicce o cacciagione, il tutto accompagnato da verdure e spezie.
La tradizione ha conservato fino ai giorni nostri i nomi e le ricette di alcuni piatti nazionali dei polacchi. Al posto del pane essi mangiavano placki e podplomyki cotti nella cenere. Zuppe assai note sono il barszcz, fatto in passato con la pianta omonima e successivamente con barbabietole, e lo zur (un borsht bianco di farina di segale bollita, lievitata e lasciata a fermentare per due giorni).
I piatti di cereali comprendevano il prazucha, una farina secca fritta cui si aggiungeva acqua calda mescolando fino a formare una densa farinata; il tartusy, una farina grossa di segale cotta in acqua bollente fino a ottenere una consistenza collosa, cui si aggiungevano sale e latte; il klushi, un tipo di gnocchetto di pasta, e così via. Il più conosciuto dei piatti di carne e verdure è il bigos polacco, una salsiccia cucinata con funghi e cavolo; segue il kwasnica fatto con la salamoia dei crauti, lardo e cotenna, farina o burro o panna; il golabki, cavolo o foglie di barbabietola farcite con kasha; lo zrazy (polpette o pezzetti di carne) e altri.
Bigos polacco
Ingredienti
1 confezione da 1 kg di crauti polacchi, 1 verza, 1kg di manzo, 1 kg di maiale, ½ kg di salsicce, 250gr di pancetta affumicata, 1/2kg di Kielbasa (tipo di salsiccia affumicata), 1 cipolla, 1 piccola latta di passata di pomodoro, 3/5 foglie di alloro, sale, pepe, olio, zucchero, erbe e spezie.
Preparazione
Prendere una grossa casseruola e mettere a bollire dell’acqua. Aggiungere i crauti e lasciarli bollire. Tagliare il manzo ed il maiale in piccoli bocconcini quadrati e farli rosolare. Di solito ci vogliono 2 padelle per poterli soffriggere tutti (una per il manzo ed una per il maiale). Condire con le erbe e le spezie. Grigliare la verza e versarla nella casseruola. Tritare la cipolla e versare anch’essa nella casseruola. Quando il manzo ed il maiale hanno preso colore versarli entrambi nella casseruola insieme al liquido di cottura.
Tagliare il kielbasa in piccoli pezzi e scottarli in padella, scottandoli si evita che si spappolino in acqua. Una volta scottati versarli nella casseruola insieme agli altri ingredienti.
Tagliare la pancetta, tenendone una fetta da parte, in pezzi lunghi 1 cm e soffriggerla. Scolare il grasso in eccesso e versarla nella casseruola. Si può cuocere anche la salsiccia insieme alla pancetta e si versa anch’essa nella casseruola.
Aggiungere 1 cucchiaino di sale, ½ cucchiaino di pepe, 1/8 tazza di zucchero e le foglie d’alloro nella casseruola.
Ed ecco il tocco finale, versare anche il contenuto della piccola latta di passata di pomodoro e mescolare il tutto. Aggiungere dell’acqua se necessario. Cuocere a lungo a fuoco lento.
BABA' e il Re di Polonia
Se la Pastiera rappresenta l'anima latina della Campania, la Sfogliatella evoca i suoi contatti con il mondo arabo e i monasteri, il Babà porta alla ribalta l'Europa del '700 nella Napoli dei Borbone .
La sua origine si lega al re di Polonia Stanislao Leczynski e al tempo del suo dorato esilio nel ducato francese di Lorena. Era metà ‘700 quando il regale gourmet, modificò a proprio gusto un dolce della pasticceria tedesca che trovava troppo asciutto: il Kugelhupf.
Nacque così il Babà, dolce intriso di rum, che sembrerebbe prese il suo nome non dall'eroe delle "Mille e una notte" (come i più riferiscono), ma dalla parola polacca "baba" (nonnina), forse affettuoso richiamo a chi si occupava della cucina nelle famiglie contadine.
Il Babà, dalla provincia francese conquistò Parigi grazie ai favori del celebre pasticcere Sthorer, e da qui giunse a Napoli al seguito dei Monzù, i cuochi mandati dai nobili ad istruirsi alla scuola d’Oltralpe.
Con il passare del tempo questo dolce passò dalle tavole aristocratiche ai tavolini dei caffè, nelle diverse interpretazioni di forma (budino o funghetto) e guarnizione.
In ogni caso il babà morbido ed inzuppato fa della semplicità la sua caratteristica: pasta solo appena dolce irrorata di profumato rum.
A Napoli è celebre il motto: "Si nu’ babà", che viene detto a qualcuno quando gli si vuole trasmettere stima, affetto e sentimento carnale.
La cucina dell’area è assimilabile a quella dell'Europa Centrale, e non mancano quindi le influenze di quello che una volta fu l'Impero Austro Ungarico. La tradizione polacca prevede pasti molto nutrienti nella prima parte della giornata con una cena molto leggera e unisce sostanziosi piatti di carne ad un uso accurato delle spezie.
Nel corso del Medioevo la segale invernale, che occupava dal 30 al 60 per cento della terra coltivata, ebbe il ruolo più importante nell' alimentazione dei polacchi; subito dopo veniva l'avena con il 25-35 per cento. Il pane più usato era lo scuro pane integrale di segale. Minestre e zuppe, fatte soprattutto con grano saraceno e orzo, avevano un posto di rilievo nella dieta quotidiana; la verdura più consumata era il cavolo, seguito da pastinaca, carote, rape, cipolle e, in misura molto minore, cetrioli, fagioli, lenticchie, prezzemolo, papavero e piselli, la cui popolarità era in ascesa.
Piatti tradizionali noti fin dall'inizio del Medioevo erano i cavoli cucinati con kasha (crema a base di cereali), carne, pesce o piselli; i fagioli, le carote, le barbabietole o le rape stufate o fritte. Spezie ed erbe locali usate in cucina erano il cumino, i semi di senape, la barbaforte e l'aceto. Nel corso del secolo XVI la Polonia subì la forte influenza dell'Europa occidentale. I polacchi che si recavano all'estero ritornavano con nuove piante: sedano, porri, cavolfiore, cavolo rapa, finocchio, insalate e altro. L'intensificazione dei commerci portò l'olio d'oliva, i frutti del Mediterraneo (uva passa, castagne, mandorle, fichi, agrumi) e spezie (pepe, zafferano, zenzero, cannella, noce moscata eccetera). L'importazione di generi coloniali decuplicò tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento, ma naturalmente furono le classi privilegiate a beneficiare di queste novità.
Tradizionalmente, l'allevamento del bestiame in Polonia era l'attività economicamente più importante; nella seconda metà del secolo XVI si verificò una rapida crescita dell'allevamento di maiali. Aveva una certa importanza anche il pollame - galline, oche, anatre e, dalla fine del Cinquecento, tacchini. La pesca e il consumo di pesci erano considerevoli, grazie ai numerosi bacini naturali e alle peschiere in cui si allevavano soprattutto carpe. Il consumo di birra crebbe costantemente soprattutto dopo il secolo XV. Si beveva calda o fredda, chiara o scura, debole o forte, ma mediamente con un tenore alcolico di due o tre gradi. Cresceva anche il consumo di vodka: bevande molto rustiche per la povera gente, acquaviti aromatizzate con erbe, anisette, cannella, scorza d'arancia e così via per le classi alte e medie.
L'Ottocento portò con sé i cambiamenti più importanti nella struttura dell'alimentazione. L'inizio dell' agricoltura moderna e gli studi di agronomia aumentarono le rese e la disponibilità di varie materie prime; la produzione di cereali fu più che triplicata. L'apertura di stabilimenti per produrre zucchero di barbabietola, farine per il mercato, alcolici e birre, olio, amidacei, lieviti, aceto, prodotti da forno, cioccolato, bevande analcoliche e gelatina comportò cambiamenti di rilievo nella preparazione domestica dei piatti.
La Polonia è stato l'unico paese dell'Europa orientale in cui i modelli alimentari fondamentali sono stati profondamente influenzati dalla modernizzazione. Nel corso dei secoli, la trasformazione dell'alimentazione ha inciso su tutte le classi sociali, ma in modo diverso. La famiglia contadina povera poteva trovarsi per il pranzo solo un misero brodo fatto con acqua calda, sale e prezzemolo. La dieta di una famiglia contadina del ceto medio della regione di Poznan a metà Ottocento era costituita da zur (borsht bianco, la minestra acida polacca) con patate e pane o patate passate con latte a colazione, piselli con cavoli e pane o gnocchetti di pasta con kvas a pranzo e gnocchetti di pasta cotti nel latte o nel kvas e pane per cena. I lavoratori salariati e le loro famiglie consumavano pane, piselli, kasha o patate, birra, vodka, aringhe. Il pranzo tradizionale in una famiglia ricca era costituito da qualche minestra come primo - un brodo o un borsht (barszcz) - seguita dalla carne: bigos con cavoli, oca con panna e funghi secchi, tacchino, montone con aglio, zampa di bue in gelatina, pancetta affumicata, maiale, salsicce o cacciagione, il tutto accompagnato da verdure e spezie.
La tradizione ha conservato fino ai giorni nostri i nomi e le ricette di alcuni piatti nazionali dei polacchi. Al posto del pane essi mangiavano placki e podplomyki cotti nella cenere. Zuppe assai note sono il barszcz, fatto in passato con la pianta omonima e successivamente con barbabietole, e lo zur (un borsht bianco di farina di segale bollita, lievitata e lasciata a fermentare per due giorni).
I piatti di cereali comprendevano il prazucha, una farina secca fritta cui si aggiungeva acqua calda mescolando fino a formare una densa farinata; il tartusy, una farina grossa di segale cotta in acqua bollente fino a ottenere una consistenza collosa, cui si aggiungevano sale e latte; il klushi, un tipo di gnocchetto di pasta, e così via. Il più conosciuto dei piatti di carne e verdure è il bigos polacco, una salsiccia cucinata con funghi e cavolo; segue il kwasnica fatto con la salamoia dei crauti, lardo e cotenna, farina o burro o panna; il golabki, cavolo o foglie di barbabietola farcite con kasha; lo zrazy (polpette o pezzetti di carne) e altri.
Bigos polacco
Ingredienti
1 confezione da 1 kg di crauti polacchi, 1 verza, 1kg di manzo, 1 kg di maiale, ½ kg di salsicce, 250gr di pancetta affumicata, 1/2kg di Kielbasa (tipo di salsiccia affumicata), 1 cipolla, 1 piccola latta di passata di pomodoro, 3/5 foglie di alloro, sale, pepe, olio, zucchero, erbe e spezie.
Preparazione
Prendere una grossa casseruola e mettere a bollire dell’acqua. Aggiungere i crauti e lasciarli bollire. Tagliare il manzo ed il maiale in piccoli bocconcini quadrati e farli rosolare. Di solito ci vogliono 2 padelle per poterli soffriggere tutti (una per il manzo ed una per il maiale). Condire con le erbe e le spezie. Grigliare la verza e versarla nella casseruola. Tritare la cipolla e versare anch’essa nella casseruola. Quando il manzo ed il maiale hanno preso colore versarli entrambi nella casseruola insieme al liquido di cottura.
Tagliare il kielbasa in piccoli pezzi e scottarli in padella, scottandoli si evita che si spappolino in acqua. Una volta scottati versarli nella casseruola insieme agli altri ingredienti.
Tagliare la pancetta, tenendone una fetta da parte, in pezzi lunghi 1 cm e soffriggerla. Scolare il grasso in eccesso e versarla nella casseruola. Si può cuocere anche la salsiccia insieme alla pancetta e si versa anch’essa nella casseruola.
Aggiungere 1 cucchiaino di sale, ½ cucchiaino di pepe, 1/8 tazza di zucchero e le foglie d’alloro nella casseruola.
Ed ecco il tocco finale, versare anche il contenuto della piccola latta di passata di pomodoro e mescolare il tutto. Aggiungere dell’acqua se necessario. Cuocere a lungo a fuoco lento.
BABA' e il Re di Polonia
Se la Pastiera rappresenta l'anima latina della Campania, la Sfogliatella evoca i suoi contatti con il mondo arabo e i monasteri, il Babà porta alla ribalta l'Europa del '700 nella Napoli dei Borbone .
La sua origine si lega al re di Polonia Stanislao Leczynski e al tempo del suo dorato esilio nel ducato francese di Lorena. Era metà ‘700 quando il regale gourmet, modificò a proprio gusto un dolce della pasticceria tedesca che trovava troppo asciutto: il Kugelhupf.
Nacque così il Babà, dolce intriso di rum, che sembrerebbe prese il suo nome non dall'eroe delle "Mille e una notte" (come i più riferiscono), ma dalla parola polacca "baba" (nonnina), forse affettuoso richiamo a chi si occupava della cucina nelle famiglie contadine.
Il Babà, dalla provincia francese conquistò Parigi grazie ai favori del celebre pasticcere Sthorer, e da qui giunse a Napoli al seguito dei Monzù, i cuochi mandati dai nobili ad istruirsi alla scuola d’Oltralpe.
Con il passare del tempo questo dolce passò dalle tavole aristocratiche ai tavolini dei caffè, nelle diverse interpretazioni di forma (budino o funghetto) e guarnizione.
In ogni caso il babà morbido ed inzuppato fa della semplicità la sua caratteristica: pasta solo appena dolce irrorata di profumato rum.
A Napoli è celebre il motto: "Si nu’ babà", che viene detto a qualcuno quando gli si vuole trasmettere stima, affetto e sentimento carnale.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
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lunedì 13 giugno 2011
FARINATA o TORTA DI CECI nascita del mito
Nel XIII sec. le navi erano sospinte oltre che dal vento anche dalla forza dei rematori, spesso alimentati con zuppe di legumi ben conservabili come i ceci.
Dopo la battaglia della Meloria (1284), dove i genovesi sconfissero i pisani, le galere della “Lanterna” erano così affollate di riottosi vogatori da perdere la loro proverbiale agilità, e sembra che una di queste imbarcazioni, solcando l’irrequieto Golfo di Biscaglia, si sarebbe trovata per diversi giorni al centro di una tempesta. L’acqua di mare imbarcata provocò gravi danni nella stiva: i ceci si ammollarono, qualche barile di olio si sfasciò, e l’umido ridusse tutto in una purea. Quando ritornò il bel tempo, fu scoperto il piccolo disastro arrecato alle provviste e, per il fatto che i viveri erano diventati scarsi, ai prigionieri fu data da mangiare l’informe cibo. Qualcuno dei pisani rifiutò la purea, abbandonando la scodella sul banco, salvo poi riappropriarsene il giorno dopo, quando i morsi della fame erano diventati irresistibili.
Un’intera giornata di esposizione al sole aveva però trasformato la pietanza in una specie di focaccetta, qualcosa di diverso dalla poca appetitosa poltiglia di ceci.
La scoperta casuale interessò i genovesi che ne perfezionarono la ricetta cuocendola in forno a legna, e battezzandola per scherno agli avversari “oro di Pisa”.
Oggi sono diverse le varianti della farinata o torta di ceci diffuse lungo tutta l'area marittima tra la Maremma e la Costa Azzurra. Viene chiamata "socca" in Costa Azzurra, "a' fainà de ceixei" in dialetto genovese, "cecina" o "torta" nell'area nord della Toscana, "fainè" nel sassarese.
Ricetta
Diluite in un litro e mezzo d’acqua, mezzo chilo di farina di ceci, mescolando energicamente ed evitando la formazione di grumi. Lasciate riposare l’impasto per un’intera notte.
L’indomani togliate la schiuma che si sarà formata sulla superficie, lavorate con un mestolo la farinata incorporandovi un bicchiere d’olio, e salate. Versate il composto in una teglia ben oleata, completate con rosmarino, pepe macinato al momento, e infornate a fuoco vivace per venti minuti.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Dopo la battaglia della Meloria (1284), dove i genovesi sconfissero i pisani, le galere della “Lanterna” erano così affollate di riottosi vogatori da perdere la loro proverbiale agilità, e sembra che una di queste imbarcazioni, solcando l’irrequieto Golfo di Biscaglia, si sarebbe trovata per diversi giorni al centro di una tempesta. L’acqua di mare imbarcata provocò gravi danni nella stiva: i ceci si ammollarono, qualche barile di olio si sfasciò, e l’umido ridusse tutto in una purea. Quando ritornò il bel tempo, fu scoperto il piccolo disastro arrecato alle provviste e, per il fatto che i viveri erano diventati scarsi, ai prigionieri fu data da mangiare l’informe cibo. Qualcuno dei pisani rifiutò la purea, abbandonando la scodella sul banco, salvo poi riappropriarsene il giorno dopo, quando i morsi della fame erano diventati irresistibili.
Un’intera giornata di esposizione al sole aveva però trasformato la pietanza in una specie di focaccetta, qualcosa di diverso dalla poca appetitosa poltiglia di ceci.
La scoperta casuale interessò i genovesi che ne perfezionarono la ricetta cuocendola in forno a legna, e battezzandola per scherno agli avversari “oro di Pisa”.
Oggi sono diverse le varianti della farinata o torta di ceci diffuse lungo tutta l'area marittima tra la Maremma e la Costa Azzurra. Viene chiamata "socca" in Costa Azzurra, "a' fainà de ceixei" in dialetto genovese, "cecina" o "torta" nell'area nord della Toscana, "fainè" nel sassarese.
Ricetta
Diluite in un litro e mezzo d’acqua, mezzo chilo di farina di ceci, mescolando energicamente ed evitando la formazione di grumi. Lasciate riposare l’impasto per un’intera notte.
L’indomani togliate la schiuma che si sarà formata sulla superficie, lavorate con un mestolo la farinata incorporandovi un bicchiere d’olio, e salate. Versate il composto in una teglia ben oleata, completate con rosmarino, pepe macinato al momento, e infornate a fuoco vivace per venti minuti.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
domenica 12 giugno 2011
LAMPREDOTTO trippa fiorentina
Più amato delle rime di Dante, più conosciuto delle ceramiche dei Della Robbia, antico come Palazzo Vecchio, il lampredotto è una pietanza che i fiorentini consumano e apprezzano.
Questo è uno dei quattro stomaci del bovino, una trippa, una frattaglia. Per i fiorentini è un’istituzione, una leggenda gastronomica, un rito popolare itinerante presente per le strade, sotto l’ombra nobile dei palazzi cinquecenteschi.
Il lampredotto è un cibo di strada che nasce tra le pietre squadrate e lucide nel cuore della città.
Gli ultimi baluardi di questo alimento povero e popolano sono i “banchini dei trippai”, come li chiamano a Firenze.
Un tempo erano carretti di legno, dipinti con colori sgargianti, condotti a mano o appoggiati su tricicli a pedali.
Oggi sono piccoli chioschi su quattro ruote, tutti di acciaio, lindi e sterili, ma con ancora intatto il loro fascino gitano. Portano in giro per Firenze il pesante carico di trippe e di storia.
In bella mostra, a un lato del banco, in mezzo a verdure fresche, limoni e insalata, i venditori offrono la loro mercanzia: lampredotto, trippa e puppa (la mammella del bovino), già bolliti e pronti per essere cucinati dalle massaie tra le mura domestiche.
Sull’altro lato del banco bollono due pentole piene di brodo, nelle quali cuociono, insieme a pomodori, carote, prezzemolo, cipolla e patate, grandi pezzi di lampredotto, destinati a una fine gloriosa: farcitura succulenta in mezzo a panini croccanti.
La storia ci aiuta a capire il perché di quest’amore tutto fiorentino per il lampredotto. Le cronache parlano delle “trippe” già nel Quattrocento, raccontando di botteghe fumose, a pochi passi dall’Arno, dove si bollivano e si vendevano le interiora per pochi centesimi.
A quei tempi la parola “fame” aveva un significato; trippa e lampredotto rappresentavano una concreta risposta ai brontolii dello stomaco. Proteine a buon mercato che il popolino nel corso dei secoli rese più appetibili e gustose elaborando ricette fantasiose. Oltre alla classica trippa alla fiorentina (pomodoro e parmigiano), e al lampredotto bollito, nei “banchini” si possono: lampredotto in inzimino (accompagnato da bietole), all’uccelletto (con salsiccia, fagioli e pomodoro), rifatto con le patate o con le cipolle, con i porri, con i carciofi.
I cultori di questo cibo preferiscono il lampredotto nella sua ricetta classica:
un panino croccante le cui facce interne sono appena bagnate di brodo bollente, farcito di morbida e semplice carne bollita, condito con sale e una generosa spolverata di pepe nero.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Questo è uno dei quattro stomaci del bovino, una trippa, una frattaglia. Per i fiorentini è un’istituzione, una leggenda gastronomica, un rito popolare itinerante presente per le strade, sotto l’ombra nobile dei palazzi cinquecenteschi.
Il lampredotto è un cibo di strada che nasce tra le pietre squadrate e lucide nel cuore della città.
Gli ultimi baluardi di questo alimento povero e popolano sono i “banchini dei trippai”, come li chiamano a Firenze.
Un tempo erano carretti di legno, dipinti con colori sgargianti, condotti a mano o appoggiati su tricicli a pedali.
Oggi sono piccoli chioschi su quattro ruote, tutti di acciaio, lindi e sterili, ma con ancora intatto il loro fascino gitano. Portano in giro per Firenze il pesante carico di trippe e di storia.
In bella mostra, a un lato del banco, in mezzo a verdure fresche, limoni e insalata, i venditori offrono la loro mercanzia: lampredotto, trippa e puppa (la mammella del bovino), già bolliti e pronti per essere cucinati dalle massaie tra le mura domestiche.
Sull’altro lato del banco bollono due pentole piene di brodo, nelle quali cuociono, insieme a pomodori, carote, prezzemolo, cipolla e patate, grandi pezzi di lampredotto, destinati a una fine gloriosa: farcitura succulenta in mezzo a panini croccanti.
La storia ci aiuta a capire il perché di quest’amore tutto fiorentino per il lampredotto. Le cronache parlano delle “trippe” già nel Quattrocento, raccontando di botteghe fumose, a pochi passi dall’Arno, dove si bollivano e si vendevano le interiora per pochi centesimi.
A quei tempi la parola “fame” aveva un significato; trippa e lampredotto rappresentavano una concreta risposta ai brontolii dello stomaco. Proteine a buon mercato che il popolino nel corso dei secoli rese più appetibili e gustose elaborando ricette fantasiose. Oltre alla classica trippa alla fiorentina (pomodoro e parmigiano), e al lampredotto bollito, nei “banchini” si possono: lampredotto in inzimino (accompagnato da bietole), all’uccelletto (con salsiccia, fagioli e pomodoro), rifatto con le patate o con le cipolle, con i porri, con i carciofi.
I cultori di questo cibo preferiscono il lampredotto nella sua ricetta classica:
un panino croccante le cui facce interne sono appena bagnate di brodo bollente, farcito di morbida e semplice carne bollita, condito con sale e una generosa spolverata di pepe nero.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Il cibo da strada
Cibo di strada arte del comunicare
Come già avveniva nell’antica Roma, sia nel Medioevo che nell’Età Moderna le classi popolari urbane vivevano gran parte della giornata per strada, dove consumavano i loro pasti comprando prodotti in botteghe o da venditori ambulanti.
Con lo sviluppo dell’industrializzazione e l’entrata delle donne nel mondo del lavoro extrafamiliare, il ceto popolare urbano s’ingrossò, e il fenomeno del cibarsi per strada aumentò.
Classiche sono le immagini ottocentesche degli scugnizzi napoletani che mangiavano con le mani per strada maccheroni o pizza, pasta o fritti (dolci e salati), frutta o verdura.
Frutti di mare crudi pugliesi, olive all'ascolana marchigiane, piadina romagnola, focacce liguri, gnocchi fritti emiliani, castagnacci toscani, porchetta romana, pani ca' meusa (pane e milza) palermitano, crepes piemontesi. Questi alcuni degli esempi di grande tradizione del cibo da strada italiano.
A Firenze ancor oggi i panini imbottiti di lampredotto vengono venduti per strada. A Palermo polpo bollito, stigghiole (budella di capretto, agnello o vitello alla brace), sfincione, sono alimenti caratteristici offerti nei quartieri popolari o nei mercati della città. A Cagliari mangiare ricci di mare è un vero e proprio rito, soprattutto maschile, e un po’ ovunque fioriscono chioschi all’aperto dove gustarli in piedi. In Sicilia e Sardegna i fichidindia sono cibo di strada sin dal Settecento.
A Trieste, delle bivalve molto apprezzate erano i mussoli, simili alle ostriche ma più piccoli e di forma allungata. Venduti nelle bancherelle agli angoli meno ventosi della città, erano messi in grandi pentoloni a schiudersi sopra a un fornello a carbone. Questi cibi venivano serviti bollenti in ciotole, ed il loro calore era per le mani un deterrente ai "refoli" della bora invernale.
Gli esempi potrebbero continuare toccando un po’ tutte le regioni della penisola, e in specie le città dell’Italia meridionale.
La cucina di strada viola apertamente molte delle regole “di casa”. Il consumo è al tempo stesso un fatto privato (spesso ci si ciba da soli, contrariamente a quando si va al ristorante o al bar, accompagnati da amici o parenti), e un evento pubblico, perchè avviene per strada o in locali aperti agli sguardi di tutti, quindi legato alla collettività. Si è da soli e insieme agli altri nello stesso tempo, e ciò crea un’atmosfera di complicità tra avventori, per cui sovente si scambiano due parole, una battuta, perchè la situazione induce un senso di confidenza non comune.
La cucina di strada è in somma un’arte della comunicazione.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Come già avveniva nell’antica Roma, sia nel Medioevo che nell’Età Moderna le classi popolari urbane vivevano gran parte della giornata per strada, dove consumavano i loro pasti comprando prodotti in botteghe o da venditori ambulanti.
Con lo sviluppo dell’industrializzazione e l’entrata delle donne nel mondo del lavoro extrafamiliare, il ceto popolare urbano s’ingrossò, e il fenomeno del cibarsi per strada aumentò.
Classiche sono le immagini ottocentesche degli scugnizzi napoletani che mangiavano con le mani per strada maccheroni o pizza, pasta o fritti (dolci e salati), frutta o verdura.
Frutti di mare crudi pugliesi, olive all'ascolana marchigiane, piadina romagnola, focacce liguri, gnocchi fritti emiliani, castagnacci toscani, porchetta romana, pani ca' meusa (pane e milza) palermitano, crepes piemontesi. Questi alcuni degli esempi di grande tradizione del cibo da strada italiano.
A Firenze ancor oggi i panini imbottiti di lampredotto vengono venduti per strada. A Palermo polpo bollito, stigghiole (budella di capretto, agnello o vitello alla brace), sfincione, sono alimenti caratteristici offerti nei quartieri popolari o nei mercati della città. A Cagliari mangiare ricci di mare è un vero e proprio rito, soprattutto maschile, e un po’ ovunque fioriscono chioschi all’aperto dove gustarli in piedi. In Sicilia e Sardegna i fichidindia sono cibo di strada sin dal Settecento.
A Trieste, delle bivalve molto apprezzate erano i mussoli, simili alle ostriche ma più piccoli e di forma allungata. Venduti nelle bancherelle agli angoli meno ventosi della città, erano messi in grandi pentoloni a schiudersi sopra a un fornello a carbone. Questi cibi venivano serviti bollenti in ciotole, ed il loro calore era per le mani un deterrente ai "refoli" della bora invernale.
Gli esempi potrebbero continuare toccando un po’ tutte le regioni della penisola, e in specie le città dell’Italia meridionale.
La cucina di strada viola apertamente molte delle regole “di casa”. Il consumo è al tempo stesso un fatto privato (spesso ci si ciba da soli, contrariamente a quando si va al ristorante o al bar, accompagnati da amici o parenti), e un evento pubblico, perchè avviene per strada o in locali aperti agli sguardi di tutti, quindi legato alla collettività. Si è da soli e insieme agli altri nello stesso tempo, e ciò crea un’atmosfera di complicità tra avventori, per cui sovente si scambiano due parole, una battuta, perchè la situazione induce un senso di confidenza non comune.
La cucina di strada è in somma un’arte della comunicazione.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
sabato 11 giugno 2011
Il cibo nei romanzi
Irvine Welsh ( I segreti erotici dei grandi chef )
Adesso era in cucina, impegnato a prepararsi una colazione a base di fritto. In breve si ritrovò a lamentare che le sue colazioni sembravano concepite più per il doposbronza che per la seduzione, mentre raschiava dal tegame le uova bruciate, non senza far scoppiare uno dei tuorli. Sbattendole su piatti freddi dove già si rapprendevano in quantità da cera di candele gli unti della salsiccia, del black pudding, del bacon e dei sovrapposti pomodori, si sentì prontamente già i pori ostruiti dalle esalazioni di grasso animale stagnanti nell'aria.
Adesso era in cucina, impegnato a prepararsi una colazione a base di fritto. In breve si ritrovò a lamentare che le sue colazioni sembravano concepite più per il doposbronza che per la seduzione, mentre raschiava dal tegame le uova bruciate, non senza far scoppiare uno dei tuorli. Sbattendole su piatti freddi dove già si rapprendevano in quantità da cera di candele gli unti della salsiccia, del black pudding, del bacon e dei sovrapposti pomodori, si sentì prontamente già i pori ostruiti dalle esalazioni di grasso animale stagnanti nell'aria.
Le ricette del birraio
Risotto con percorso: burrata, basilico, baccalà alla birra
Ingredienti per 4 persone:
320 g di riso carnaroli
90 cl di brodo vegetale
1 scalogno
100 g di burrata
50 g di pesto al basilico
50 g di baccalà dissalato
10 cl di birra
La Ricetta
Il baccalà:
Mettere il baccala in una piccola pirofila di dimensioni pari al trancio del pesce che intendiamo
cuocere. Ricoprire con la birra e mettere in forno a 90 gradi per circa 10 minuti. Tenere in caldo.
Il risotto:
Far imbiondire lo scalagno in olio extra vergine. Aggiungere il riso in modo da tostarlo bene.
Bagnare con la birra, aggiungere il brodo di volta in volta oppure in una volta sola nel caso preferiate avere un chicco separato e integro. Far riposare 5 minuti lontano dal fuoco e dividete in due parti uguali che mantecherete una con il pesto al basilico, l'altra con la burrata.
Mantecare energicamente. Aiutandosi con un cerchio di acciaio disporre al centro il risotto al pesto (in alternativa può essere usato un bicchiere, riempito con il risotto, che provvederete a girare al centro del piatto).
Adesso disporre intorno al risotto al pesto il risotto alla burrata e posare al centro del piatto il baccalà. Condire con un filo d'olio extravergine e con erbe aromatiche a piacimento.
Piatto semplice e raffinato fin dall'aspetto. Il percorso, porta dritti al baccalà partendo dal morbido risotto alla burrata e facendo sosta sul profumato risotto al pesto. La nostra Volpe Rossa del birrificio di Prato Mosto Dolce, una vienna/marzen all'italiana se vogliamo proprio inquadrarla in uno stile, dà il meglio di sè con il baccalà, ingentilito dai toni dolci e biscottati della birra, non disdegnando comunque l'abbinamento, grazie al piacevole e ripulente amaro che caratterizza il finale.
La birra
Nome : Volpe Rossa
Birrificio : Mosto dolce
Fermentazione: Bassa
Grado alcolico: 6,3% vol.
Ingredienti per 4 persone:
320 g di riso carnaroli
90 cl di brodo vegetale
1 scalogno
100 g di burrata
50 g di pesto al basilico
50 g di baccalà dissalato
10 cl di birra
La Ricetta
Il baccalà:
Mettere il baccala in una piccola pirofila di dimensioni pari al trancio del pesce che intendiamo
cuocere. Ricoprire con la birra e mettere in forno a 90 gradi per circa 10 minuti. Tenere in caldo.
Il risotto:
Far imbiondire lo scalagno in olio extra vergine. Aggiungere il riso in modo da tostarlo bene.
Bagnare con la birra, aggiungere il brodo di volta in volta oppure in una volta sola nel caso preferiate avere un chicco separato e integro. Far riposare 5 minuti lontano dal fuoco e dividete in due parti uguali che mantecherete una con il pesto al basilico, l'altra con la burrata.
Mantecare energicamente. Aiutandosi con un cerchio di acciaio disporre al centro il risotto al pesto (in alternativa può essere usato un bicchiere, riempito con il risotto, che provvederete a girare al centro del piatto).
Adesso disporre intorno al risotto al pesto il risotto alla burrata e posare al centro del piatto il baccalà. Condire con un filo d'olio extravergine e con erbe aromatiche a piacimento.
Piatto semplice e raffinato fin dall'aspetto. Il percorso, porta dritti al baccalà partendo dal morbido risotto alla burrata e facendo sosta sul profumato risotto al pesto. La nostra Volpe Rossa del birrificio di Prato Mosto Dolce, una vienna/marzen all'italiana se vogliamo proprio inquadrarla in uno stile, dà il meglio di sè con il baccalà, ingentilito dai toni dolci e biscottati della birra, non disdegnando comunque l'abbinamento, grazie al piacevole e ripulente amaro che caratterizza il finale.
La birra
Nome : Volpe Rossa
Birrificio : Mosto dolce
Fermentazione: Bassa
Grado alcolico: 6,3% vol.
Consigli dai birrifici
Con questa musica, la birreria artigianale Turan, consiglia la birra
Quinta seison, con miele della Tuscia,
una birra ad alta fermentazione, con
5,6 di gradazione alcolica.
venerdì 10 giugno 2011
La gastronomia ai tempi di Cleopatra
Cleopatra e la sua corte
L'ultima regina dell'antico Egitto fu Cleopatra VII della dinastia Tolemaica, che regnò dal 51 al 30 a.C. fronteggiando la potenza romana con una strategia politica basata su magnetismo personale e stile di vita lussuoso.
Giovanissima divenne amante del maturo Giulio Cesare, per avere in seguito con il triunviro Marco Antonio un lungo e profondo legame d'amore che si concluse con la morte di entrambi.
Ai due amanti più celebri dell'antichità si ascrive il merito d'aver creato una delle prime associazioni gastronomiche della storia: raggruppava i maggiori buongustai dell'epoca ed aveva il nome di "Circolo degli Inimitabili". I soci alternavano cacce e feste a discussioni coi dotti della Biblioteca e puntate avventurose nei quartieri malfamati.
La scoperta e traduzione di alcuni papiri rinvenuti nell’oasi del Fayum, la più ricca del regno di Cleopatra, ha rivelato interessanti indicazioni sulla gastronomia di quel tempo. Gli Egizi furono i precursori della cucina mediterranea e non come sarebbe logico supporre di quella araba, più ricca di spezie. Utilizzavano olio extravergine d’oliva, formaggi leggeri, verdure, erbe aromatiche, legumi, cereali, e consumavano pietanze a base di pesci e carni.
Grazie ai papiri è possibile scoprire che a tavola della regina più famosa del mondo, donna colta e intelligente (si narra che fosse capace di una conversazione irresistibile), faceva spesso bella mostra di se il piccione farcito accompagnato a verdure di stagione. Si gustava poi la zuppa di fave, ma anche d’orzo o di farro, che di solito apriva la lista delle portate. La selvaggina si alternava spesso a carni ovine. Non mancavano però occasioni più raffinate dove faceva capolino il pesce del Nilo. I dolci consistevano in prelibati tortini di fichi e noci, ricoperti di miele. Ad innaffiare un simile pasto non mancava del buon vino greco e della birra, preziosa eredità dei faraoni.
Sulla ricerca di una vita inimitabile da parte di Cleopatra ed Antonio vogliamo riportare due episodi memorabili.
Il primo fu la scommessa fatta dai due su chi avrebbe offerto il banchetto più costoso. L’evento narrato da Plinio, e immortalato in numerosi dipinti, racconta che se Antonio si era affannato a cercare cibi rari ed esotici, Cleopatra aveva speso oltre dieci milioni di sesterzi in costosi manicaretti, sciogliendo inoltre in una coppa di aceto uno dei suoi orecchini di perle d’inestimabile valore.
L’altro episodio propone gli eccessi quotidiani praticati nelle cucine del palazzo reale d’Alessandria. La scena, descritta daI medico Filota al nonno di Plutarco, narra della sua visita alla corte, e dello stupore provato scoprendo che in cucina c’erano in cottura otto cinghiali, a diversi stadi di arrostitura, perché Marco Antonio esigeva in ogni momento disponibile carne cotta al punto giusto, nel caso gli venisse fame o arrivassero ospiti inattesi.
Dulcis Coccora per Cleopatra
I coccora sono semi commestibile di piante mediterranee che nell’antichità venivano aggiunti ai dolci. Oggi potrebbero essere sostituiti dai semi del melograno o dai frutti di bosco.
Preparare i dolcetti lavorando farina, acqua ed aggiungendo all’impasto pezzi di fichi secchi e noci.
Modellare delle piccole palline da mettere a cuocere e caramellare nel miele bollente.
Servire queste delizie miste a coccora.
BISCOTTI dalla preistoria ai Romani
Cotto due volte per sconfiggere le insidie del tempo restando a lungo fresco e fragrante: ecco il segreto di uno dei dolci più cari e diffusi. Friabile oppure spugnoso, morbido o croccante, si presta a mille interpretazioni. Non era ancora l’alba per la civiltà, ma già in Medio Oriente l’agricoltura preistorica si esercitava su cereali di diverse specie. Macerati nell’acqua, i chicchi davano origine a poltiglie di varia consistenza. Poi probabilmente, successe che questo composto cadde sulle pietre ancora arroventate da un recente fuoco. Al disappunto iniziale dei presenti, seguì certamente la piacevole sorpresa dell’aroma di quella “galletta”. Era nata una nuova ricetta, molto prima del pane: il biscotto.
Le preparazioni subirono un’evoluzione notevole, insaporendo le paste di base con sesamo, ceci, formaggio, e dolcificandole con uva, fichi, miele. Biscotti e pasticcini erano confezionati già nell’Egitto dei Faraoni per divertire il sovrano non meno che i bambini, come testimoniano i geroglifici.
I Greci creavano dei biscottini votivi di vari forma, uccelli, maiali, tori, a secondo della divinità alla quale erano destinati. Sulla tavola di tutti i giorni non mancavano biscotti raffinati, che pare costituissero la prima e l’ultima portata dei banchetti. Ogni città dell’Ellade andava fiera di una particolare specialità, mentre filosofi e letterati non trascuravano di occuparsi di queste ghiottonerie.
D’orzo, prima che di frumento, furono i biscotti italici fino al V sec. a.C. Orazio regalava in premio ai suoi scolari diligenti i “crustula”, mentre il “buccellatum” era destinato al “buccellarius” cioè il legionario di terraferma impegnato nei lunghi spostamenti. Con il passare del tempo la pasticceria Romana subì una grande evoluzione. Nella capitale dell’impero, sia presso le cucine domestiche che nei “pistores dulciarii” (pasticceri), fu un rigoglio di raffinatezze, quali l’ “humus” (sarta di ciambelle) e il “globulus” (pasticcino alle mele). Particolarmente famosi erano i “crustulum”, consumati dopo le cerimonie sacrificali da offerenti, sacerdoti e aiutanti religiosi, così nelle strade di Roma i “crustularii” si contendevano a viva voce il primato della propria merce.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
L'ultima regina dell'antico Egitto fu Cleopatra VII della dinastia Tolemaica, che regnò dal 51 al 30 a.C. fronteggiando la potenza romana con una strategia politica basata su magnetismo personale e stile di vita lussuoso.
Giovanissima divenne amante del maturo Giulio Cesare, per avere in seguito con il triunviro Marco Antonio un lungo e profondo legame d'amore che si concluse con la morte di entrambi.
Ai due amanti più celebri dell'antichità si ascrive il merito d'aver creato una delle prime associazioni gastronomiche della storia: raggruppava i maggiori buongustai dell'epoca ed aveva il nome di "Circolo degli Inimitabili". I soci alternavano cacce e feste a discussioni coi dotti della Biblioteca e puntate avventurose nei quartieri malfamati.
La scoperta e traduzione di alcuni papiri rinvenuti nell’oasi del Fayum, la più ricca del regno di Cleopatra, ha rivelato interessanti indicazioni sulla gastronomia di quel tempo. Gli Egizi furono i precursori della cucina mediterranea e non come sarebbe logico supporre di quella araba, più ricca di spezie. Utilizzavano olio extravergine d’oliva, formaggi leggeri, verdure, erbe aromatiche, legumi, cereali, e consumavano pietanze a base di pesci e carni.
Grazie ai papiri è possibile scoprire che a tavola della regina più famosa del mondo, donna colta e intelligente (si narra che fosse capace di una conversazione irresistibile), faceva spesso bella mostra di se il piccione farcito accompagnato a verdure di stagione. Si gustava poi la zuppa di fave, ma anche d’orzo o di farro, che di solito apriva la lista delle portate. La selvaggina si alternava spesso a carni ovine. Non mancavano però occasioni più raffinate dove faceva capolino il pesce del Nilo. I dolci consistevano in prelibati tortini di fichi e noci, ricoperti di miele. Ad innaffiare un simile pasto non mancava del buon vino greco e della birra, preziosa eredità dei faraoni.
Sulla ricerca di una vita inimitabile da parte di Cleopatra ed Antonio vogliamo riportare due episodi memorabili.
Il primo fu la scommessa fatta dai due su chi avrebbe offerto il banchetto più costoso. L’evento narrato da Plinio, e immortalato in numerosi dipinti, racconta che se Antonio si era affannato a cercare cibi rari ed esotici, Cleopatra aveva speso oltre dieci milioni di sesterzi in costosi manicaretti, sciogliendo inoltre in una coppa di aceto uno dei suoi orecchini di perle d’inestimabile valore.
L’altro episodio propone gli eccessi quotidiani praticati nelle cucine del palazzo reale d’Alessandria. La scena, descritta daI medico Filota al nonno di Plutarco, narra della sua visita alla corte, e dello stupore provato scoprendo che in cucina c’erano in cottura otto cinghiali, a diversi stadi di arrostitura, perché Marco Antonio esigeva in ogni momento disponibile carne cotta al punto giusto, nel caso gli venisse fame o arrivassero ospiti inattesi.
Dulcis Coccora per Cleopatra
I coccora sono semi commestibile di piante mediterranee che nell’antichità venivano aggiunti ai dolci. Oggi potrebbero essere sostituiti dai semi del melograno o dai frutti di bosco.
Preparare i dolcetti lavorando farina, acqua ed aggiungendo all’impasto pezzi di fichi secchi e noci.
Modellare delle piccole palline da mettere a cuocere e caramellare nel miele bollente.
Servire queste delizie miste a coccora.
BISCOTTI dalla preistoria ai Romani
Cotto due volte per sconfiggere le insidie del tempo restando a lungo fresco e fragrante: ecco il segreto di uno dei dolci più cari e diffusi. Friabile oppure spugnoso, morbido o croccante, si presta a mille interpretazioni. Non era ancora l’alba per la civiltà, ma già in Medio Oriente l’agricoltura preistorica si esercitava su cereali di diverse specie. Macerati nell’acqua, i chicchi davano origine a poltiglie di varia consistenza. Poi probabilmente, successe che questo composto cadde sulle pietre ancora arroventate da un recente fuoco. Al disappunto iniziale dei presenti, seguì certamente la piacevole sorpresa dell’aroma di quella “galletta”. Era nata una nuova ricetta, molto prima del pane: il biscotto.
Le preparazioni subirono un’evoluzione notevole, insaporendo le paste di base con sesamo, ceci, formaggio, e dolcificandole con uva, fichi, miele. Biscotti e pasticcini erano confezionati già nell’Egitto dei Faraoni per divertire il sovrano non meno che i bambini, come testimoniano i geroglifici.
I Greci creavano dei biscottini votivi di vari forma, uccelli, maiali, tori, a secondo della divinità alla quale erano destinati. Sulla tavola di tutti i giorni non mancavano biscotti raffinati, che pare costituissero la prima e l’ultima portata dei banchetti. Ogni città dell’Ellade andava fiera di una particolare specialità, mentre filosofi e letterati non trascuravano di occuparsi di queste ghiottonerie.
D’orzo, prima che di frumento, furono i biscotti italici fino al V sec. a.C. Orazio regalava in premio ai suoi scolari diligenti i “crustula”, mentre il “buccellatum” era destinato al “buccellarius” cioè il legionario di terraferma impegnato nei lunghi spostamenti. Con il passare del tempo la pasticceria Romana subì una grande evoluzione. Nella capitale dell’impero, sia presso le cucine domestiche che nei “pistores dulciarii” (pasticceri), fu un rigoglio di raffinatezze, quali l’ “humus” (sarta di ciambelle) e il “globulus” (pasticcino alle mele). Particolarmente famosi erano i “crustulum”, consumati dopo le cerimonie sacrificali da offerenti, sacerdoti e aiutanti religiosi, così nelle strade di Roma i “crustularii” si contendevano a viva voce il primato della propria merce.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
giovedì 9 giugno 2011
Il cibo nei romanzi
" Non c'è dubbio. Sono d'accordo. Immagino che sia ragionevole che vogliate prevenire le atrocità che sarebbero perpetrate nelle cucine di migliaia di ristoranti in tutto il mondo se rivelaste la vostra ricetta.
Ci sono pochissimi grandi cuochi, una manciata di buoni e un'orda pestifera di pessimi. Io ne ho a casa uno buono. Il signor Fritz Brenner. Non è un cuoco ispirato, ma è competente e giudizioso. Inoltre è discreto,
e lo sono anch'io. Perciò vi supplico, e questa è la richiesta a cui volevo arrivare, vi supplico di darmi la ricetta delle salsicce mezzanotte."
Rex Stout ( A tavola con Nero Wolfe )
Ci sono pochissimi grandi cuochi, una manciata di buoni e un'orda pestifera di pessimi. Io ne ho a casa uno buono. Il signor Fritz Brenner. Non è un cuoco ispirato, ma è competente e giudizioso. Inoltre è discreto,
e lo sono anch'io. Perciò vi supplico, e questa è la richiesta a cui volevo arrivare, vi supplico di darmi la ricetta delle salsicce mezzanotte."
Rex Stout ( A tavola con Nero Wolfe )
Ricette (Carpaccio Estivo Particolare)
320 gr. di fettine di manzo tagliate per carpaccio
40 gr. di stracchino
40 gr. di parmigiano
rucola
1 limone
100 gr. di yogurt magro
2 cucchiaini senape forte
sale e pepe
Preparazione
Stendere le fette di carne su un piatto da portata e irrorarle col succo del limone.
Far macerare per 15 minuti.
Poi distribuire su tutta la carne il parmigiano a scaglie, lo stracchino a pezzetti e la rucola spezzettata.
Mescolare lo yogurt con la senape, sale e pepe e versare sulla carne.
Tenere in frigo per mezz'ora prima di servire.
Si può sostituire lo stracchino col Philadelphia o simile.
Il carpaccio di manzo o vitello invece, può essere sostituito benissimo dalla bresaola.
40 gr. di stracchino
40 gr. di parmigiano
rucola
1 limone
100 gr. di yogurt magro
2 cucchiaini senape forte
sale e pepe
Preparazione
Stendere le fette di carne su un piatto da portata e irrorarle col succo del limone.
Far macerare per 15 minuti.
Poi distribuire su tutta la carne il parmigiano a scaglie, lo stracchino a pezzetti e la rucola spezzettata.
Mescolare lo yogurt con la senape, sale e pepe e versare sulla carne.
Tenere in frigo per mezz'ora prima di servire.
Si può sostituire lo stracchino col Philadelphia o simile.
Il carpaccio di manzo o vitello invece, può essere sostituito benissimo dalla bresaola.
mercoledì 8 giugno 2011
Totò e la gioia del palato
La madre lo fece studiare nella speranza che diventasse sacerdote, ma il giovane Antonio a quindici anni già aveva iniziato ad esibirsi nei teatrini di periferia con altri giovani attori del calibro dei De Filippo. Nei teatri spesso poveri ed improvvisati fece la sua gavetta di guitto, imparando a recitare senza sceneggiatura, prestando la sua fisicità tutta particolare ai personaggi: burattino completamente disarticolato, viso dalle mille espressioni, una dialettica comica che entrò ed ancora sta nel lessico comune. Successivamente il giovane si mise in luce nelle serate di trattenimento della piccola borghesia napoletana, per poi approdare al teatro di varietà, alla rivista, e al cinema.
Totò amava mangiare e aveva culto della buona tavola, anche in ricordo dei duri anni di gavetta in cui aveva patito la fame. Non c’è da stupirsi, quindi, che avesse elaborato diverse ricette per la gioia del suo palato, di quello dei familiari e degli amici fidati.
Il suo credo era: “A tavola si capisce chi sei e con chi hai a che fare”, e la figlia Liliana con il libro: “Fegato qua, fegato là, fegato fritto e baccalà”, ci svela i segreti della famiglia de Curtis, tramandati di generazione in generazione per mezzo di un quadernetto nero.
Secondo Totò, ogni cibo andava curato nella sua semplicità. Se decideva di mangiare pane ed olio, entrambi gli ingredienti dovevano essere di prima scelta e consumati ad una tavola bene apparecchiata, perché secondo lui l’occhio e lo stomaco avevano uguali diritti. Alla tavola del “principe” fiorivano battute in libertà e venivano raccontati aneddoti esilaranti, come ad esempio quello di Totò ed Eduardo De Filippo. Entrambi all’inizio della carriera, nel corso di una turnée teatrale assai poco redditizia, si ritrovarono a dare la caccia a un piccione. Affamati, come sempre, mentre stavano provando in un teatro scalcinato, videro un piccione svolazzare qua e là. Guardarsi negli occhi e decidere tacitamente di catturarlo fu tutt’uno. Bisognava agire con discrezione, in modo che i compagni di lavoro non notassero la preda. Eduardo e Totò uscirono all’aperto con la scusa di voler prendere una boccata d’aria e, con la forza della disperazione, riuscirono ad acchiappare il malcapitato pennuto. Quindi, si precipitarono nella locanda più vicina per farlo cucinare aspettando trepidanti che fosse cotto. Il piccione arrostito a puntino risultò squisito, ma Totò dopo un paio di bocconi si intristì per la pena di aver stroncato una vita. Eduardo lo interruppe dicendo: “Ma famme ‘o piacere, co ‘a famme ca tenimmo, tu te metti pure a chiagne”. Al che Totò asciugandosi le lacrime replicò: “Eduà sei un grande saggio, perché mi hai fatto capire che cuore e stomaco non sempre vanno d’accordo. La fame giustifica i mezzi e tu lassa sta’ a parte mia d’o piccione!”.
Risotto alla Garibaldi di Totò
Dopo aver lavato delle cozze e delle vongole, disponetele in una padella a bordi alti e fatele aprire a recipiente coperto. Lavate dei gamberi, sgusciateli e fate bollire i gusci in mezzo litro d’acqua per mezzora. Unite in una ciotola delle seppioline, le cozze, le vongole, e la polpa di gamberi. Fate soffriggere in olio abbondante dell’aglio, del prezzemolo, del peperoncino e del basilico finemente tritati e unite del riso che farete tostare per qualche minuto, per poi bagnarlo con del vino bianco fino all’evaporazione. Quindi, aggiungete i frutti di mare, le seppioline e la polpa di gamberi e salate. Nel frattempo, unite l’acqua dei gusci di gamberi e quella di cottura di vongole e cozze, filtrando bene il tutto. Ponete questo brodo sul fuoco e usatelo al posto del solito brodo vegetale per terminare la cottura del risotto. Questa ricetta pare che fosse molto gradito oltre che a Totò anche a Garibaldi.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Totò amava mangiare e aveva culto della buona tavola, anche in ricordo dei duri anni di gavetta in cui aveva patito la fame. Non c’è da stupirsi, quindi, che avesse elaborato diverse ricette per la gioia del suo palato, di quello dei familiari e degli amici fidati.
Il suo credo era: “A tavola si capisce chi sei e con chi hai a che fare”, e la figlia Liliana con il libro: “Fegato qua, fegato là, fegato fritto e baccalà”, ci svela i segreti della famiglia de Curtis, tramandati di generazione in generazione per mezzo di un quadernetto nero.
Secondo Totò, ogni cibo andava curato nella sua semplicità. Se decideva di mangiare pane ed olio, entrambi gli ingredienti dovevano essere di prima scelta e consumati ad una tavola bene apparecchiata, perché secondo lui l’occhio e lo stomaco avevano uguali diritti. Alla tavola del “principe” fiorivano battute in libertà e venivano raccontati aneddoti esilaranti, come ad esempio quello di Totò ed Eduardo De Filippo. Entrambi all’inizio della carriera, nel corso di una turnée teatrale assai poco redditizia, si ritrovarono a dare la caccia a un piccione. Affamati, come sempre, mentre stavano provando in un teatro scalcinato, videro un piccione svolazzare qua e là. Guardarsi negli occhi e decidere tacitamente di catturarlo fu tutt’uno. Bisognava agire con discrezione, in modo che i compagni di lavoro non notassero la preda. Eduardo e Totò uscirono all’aperto con la scusa di voler prendere una boccata d’aria e, con la forza della disperazione, riuscirono ad acchiappare il malcapitato pennuto. Quindi, si precipitarono nella locanda più vicina per farlo cucinare aspettando trepidanti che fosse cotto. Il piccione arrostito a puntino risultò squisito, ma Totò dopo un paio di bocconi si intristì per la pena di aver stroncato una vita. Eduardo lo interruppe dicendo: “Ma famme ‘o piacere, co ‘a famme ca tenimmo, tu te metti pure a chiagne”. Al che Totò asciugandosi le lacrime replicò: “Eduà sei un grande saggio, perché mi hai fatto capire che cuore e stomaco non sempre vanno d’accordo. La fame giustifica i mezzi e tu lassa sta’ a parte mia d’o piccione!”.
Risotto alla Garibaldi di Totò
Dopo aver lavato delle cozze e delle vongole, disponetele in una padella a bordi alti e fatele aprire a recipiente coperto. Lavate dei gamberi, sgusciateli e fate bollire i gusci in mezzo litro d’acqua per mezzora. Unite in una ciotola delle seppioline, le cozze, le vongole, e la polpa di gamberi. Fate soffriggere in olio abbondante dell’aglio, del prezzemolo, del peperoncino e del basilico finemente tritati e unite del riso che farete tostare per qualche minuto, per poi bagnarlo con del vino bianco fino all’evaporazione. Quindi, aggiungete i frutti di mare, le seppioline e la polpa di gamberi e salate. Nel frattempo, unite l’acqua dei gusci di gamberi e quella di cottura di vongole e cozze, filtrando bene il tutto. Ponete questo brodo sul fuoco e usatelo al posto del solito brodo vegetale per terminare la cottura del risotto. Questa ricetta pare che fosse molto gradito oltre che a Totò anche a Garibaldi.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
martedì 7 giugno 2011
Cioccolato tra le righe
E' come uno dei miei sogni. Mi rotolo nel cioccolato. Immagino me stesso in un campo di cioccolatini, su una spiaggia di cioccolatini, mentre mi crogiolo-grufolo-ingozzo. Non ho tempo per leggere le etichette, mi infilo dei cioccolatini in bocca a caso. Il porco perde la sua astuzia di fronte a tanto piacere, ritorna a essere di nuovo un porco, e anche se qualcosa in fondo ai miei pensieri urli di smetterla, non riesco a farlo. Una volta cominciato, non può finire.
Joanne Harris " Chocolat "
Joanne Harris " Chocolat "
lunedì 6 giugno 2011
" Asparagi "
M'indugiavo a guardare, sulla tavola, dove la sguattera li aveva appena sgusciati, i piselli allineati e numerati come bilie verdi in un gioco; ma sostavo rapito davanti agli asparagi, aspersi d'oltremare e di rosa, e il cui gambo, delicatamente spruzzettato di viola e d'azzurro, declina insensibilmente fino al piede - pur ancora sudicio del terriccio del campo - in iridescenze che non sono terrene. Mi sembrava che quelle sfumature celesti palesassero le deliziose creature che s'eran divertite a prender forma di ortaggi e che, attraverso la veste delle loro carni commestibili e ferme, lasciassero vedere in quei colori nascenti d'aurora, in quegli abbozzi d'arcobaleno, in quell'estinzione di sete azzurre, l'essenza preziosa che riconoscevo ancora quando, l'intera notte che seguiva ad un pranzo in cui ne avevo mangiati, si divertivano, nelle loro burle poetiche e volgari come una favola scespiriana, a mutar il mio vaso da notte in un'anfora di profumo.
Marcel Proust
Marcel Proust
Tartare di pesce, molluschi e crostacei con minestrone di verdure
Ecco il "restauro" di un piatto classico di Sergio Mei, chef del Four Seasons di Milano.
Ingredienti
120 g di filetti di rombo, 120 di polpa di salmone, 120 di capesante, 120 di code di gamberi, 30 g di acetosella, olio, basilico, timo, finocchietto, erba cipollina, sale e pepe. Per il minestrone di verdure 30 g di carote, 30 di sedano, 20 di cipollotto, 50 di finocchio, 70 di zucchine, 30 di cetrioli.
Preparazione
Sfilettare il rombo, eliminare la pelle e tritare a coltello i filetti. Metterli in bacinella e condirli. Sfilettare il salmone, spinarlo, eliminare la pelle e tritare a coltello i filetti dopo averli conditi. Aprire le capesante e tritare le noci. Sgusciare le code dei crostacei eliminando il budello. Sfogliare l’acetosella con olio e metterla nel frullatore. Frullare e filtrare. Lavare, mondare e tagliare a dadini il minestrone di verdure dopo averlo condito adeguatamente. Per la finitura modellare nei piatti, con l’aiuto di uno stampino ovale, la tartare di pesci e crostacei. Disporre vicino il minestrone e salsare con olio di acetosella.
Ingredienti
120 g di filetti di rombo, 120 di polpa di salmone, 120 di capesante, 120 di code di gamberi, 30 g di acetosella, olio, basilico, timo, finocchietto, erba cipollina, sale e pepe. Per il minestrone di verdure 30 g di carote, 30 di sedano, 20 di cipollotto, 50 di finocchio, 70 di zucchine, 30 di cetrioli.
Preparazione
Sfilettare il rombo, eliminare la pelle e tritare a coltello i filetti. Metterli in bacinella e condirli. Sfilettare il salmone, spinarlo, eliminare la pelle e tritare a coltello i filetti dopo averli conditi. Aprire le capesante e tritare le noci. Sgusciare le code dei crostacei eliminando il budello. Sfogliare l’acetosella con olio e metterla nel frullatore. Frullare e filtrare. Lavare, mondare e tagliare a dadini il minestrone di verdure dopo averlo condito adeguatamente. Per la finitura modellare nei piatti, con l’aiuto di uno stampino ovale, la tartare di pesci e crostacei. Disporre vicino il minestrone e salsare con olio di acetosella.
Sciampagne
Nun bevo che Frascati. Lo sciampagne
me mette in core come un'allegria
per una cosa che m'ha fatto piagne:
o pe' di' mejo sento
che er piacere che provo in quer momento
è foderato de malinconia
Trilussa
me mette in core come un'allegria
per una cosa che m'ha fatto piagne:
o pe' di' mejo sento
che er piacere che provo in quer momento
è foderato de malinconia
Trilussa
Bottarga di corsa e di ritorno
Ingredienti per 4 persone
300 G di Bottarga Di Tonno
1 Limone (succo)
Prezzemolo
Olio extra vergine d'oliva
Pepe
Preparazione
La bottarga di tonno può essere: di corsa, cioè dei tonni presi prima di aver deposto le uova, e quindi con l'ovaia salata (la bottarga) ricchissima di uova; e di ritorno, cioè dei tonni che hanno già deposto le uova, con l'ovaia quindi più povera e più secca. Cioè: uova di tonno (il caviale siciliano). Tagliare a fettine sottili la bottarga salata e farla rinvenire in olio d'oliva versatovi sopra, nel piatto di presentazione, qualche ora prima di servirla. Poi al momento che va in tavola, spremere il succo di un bel limone, cospargere fresche foglioline di prezzemolo e pepe nero appena macinato. Se la bottarga è di corsa si otterrà un antipasto che non ha nulla da invidiare al caviale. Assieme alla bottarga, da tempo immemorabile, in Sicilia, vanno serviti i carduni spinusi, non per niente il proverbio sentenza: 'Si vuliti viviri gustusu: ova di tunnu e carduni spinusi,' cioè, se volete campare di gusto uova di tonno e cardi spinosi.
300 G di Bottarga Di Tonno
1 Limone (succo)
Prezzemolo
Olio extra vergine d'oliva
Pepe
Preparazione
La bottarga di tonno può essere: di corsa, cioè dei tonni presi prima di aver deposto le uova, e quindi con l'ovaia salata (la bottarga) ricchissima di uova; e di ritorno, cioè dei tonni che hanno già deposto le uova, con l'ovaia quindi più povera e più secca. Cioè: uova di tonno (il caviale siciliano). Tagliare a fettine sottili la bottarga salata e farla rinvenire in olio d'oliva versatovi sopra, nel piatto di presentazione, qualche ora prima di servirla. Poi al momento che va in tavola, spremere il succo di un bel limone, cospargere fresche foglioline di prezzemolo e pepe nero appena macinato. Se la bottarga è di corsa si otterrà un antipasto che non ha nulla da invidiare al caviale. Assieme alla bottarga, da tempo immemorabile, in Sicilia, vanno serviti i carduni spinusi, non per niente il proverbio sentenza: 'Si vuliti viviri gustusu: ova di tunnu e carduni spinusi,' cioè, se volete campare di gusto uova di tonno e cardi spinosi.
domenica 5 giugno 2011
In cucina con Alexander Dumas
Romanziere e drammaturgo, fu uomo di scarsa cultura ma di straordinaria vitalità e inventiva. I suoi romanzi (una quindicina), per lo più d’argomento storico, ottennero un grande successo di pubblico, e contribuirono all’affermazione del romanzo d’appendice (genere pubblicato a puntate dai giornali). Abile nell’intuire le esigenze del pubblico, per soddisfare l’attesa di migliaia di lettori operò su scala industriale riunendo intorno a se una dozzina di collaboratori. L'autore dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo , che aveva sia la passione della buona tavola che lo stomaco vasto quanto un silo, pubblicò anche il “Grande Dizionario di Cucina”. Questa idea prese forma negli ultimi anni della sua vecchia. "Voglio chiudere - diceva spesso - la mia opera letteraria di quattro cinquecento volumi con un libro di cucina". Le sue escursioni in Europa gli resero familiari i menù esotici, e non può quindi sorprendere che abbia voluto raccontare le conoscenze acquisite nel corso di una vita. Il manoscritto, ideato come un'opera che doveva essere letta da gente comune e utilizzata dagli esperti, fu consegnato da Dumas al suo editore poco prima di spengersi.
Le quasi 3000 ricette consigliate, arricchite da 500 stampe d’epoca, spaziano dalle preparazioni internazionali ai piatti tradizionali. Ma Alexander Dumas ha descritto anche, per la prima volta in un libro, la versione della pizza con il pomodoro (l’opera del 1835, è una raccolta di sue esperienze fatte durante un viaggio a Napoli).
E’ però con un aneddoto che voglio testimoniarvi lo smisurato appetito di questo grande narratore.
Durante il colera, mentre divorava meloni con fanciullesca avidità, al figlio che gli obiettava la pericolosità di quei frutti in tempo d’epidemia, avrebbe risposto: "Sarebbe un peccato non mangiarli, non costano nulla".
Il pranzo del Conte di Montecristo
Dumas ha immortalato nel Conte di Montecristo, ambientato a Marsiglia a partire dal 1815, anche la vita e l’atmosfera che si respirava all’epoca in quel porto. Stoffe, seta, olio, cereali, agrumi, arrivavano dalle località più disparate come: Smirne, Trieste e Napoli, per raggiungere da qui i mercati di Parigi.
Ma adesso vogliamo riportarvi un passo di questo celebre romanzo, dedicato al pranzo offerto dal “conte” Edmondo Dantes alla nobiltà parigina.
“…Il pranzo fu magnifico. Montecristo si era proposto di rovesciare completamente l’etichetta parigina, e di saziare più la curiosità che l’appetito dei convitati, fu un banchetto orientale come potevano esserlo i banchetti delle fate arabe. Tutti i frutti, che le quattro parti del mondo possono versare intatti e saporosi nel corno d’abbondanza d’Europa, erano riuniti ed ammonticchiati in piramidi entro vasi di Cina e sottocoppe del Giappone. Uccelli rari, colla parte più brillante delle loro penne, pesci mostruosi stesi su lastre d’argento, tutti i vini dell’Arcipelago, dell’Asia Minore… passarono successivamente (come una di quelle girandole di portate che Apicio faceva passare sui convitati) davanti a questi parigini, che comprendevano potersi spendere mille luigi in un pranzo di dieci persone, ma a condizione che, come Cleopatra, si mangiassero delle perle, o che, come Lorenzo il Magnifico, si bevesse dell’oro fuso. Montecristo vide lo stupore generale, e si mise a ridere ed a scherzare ad alta voce…”.
Oca ripiena alla d’Artagnan
Charles de Batz-Castelmore conte d'Artagnan è stato immortalato da Alexander Dumas padre fra i protagonisti del romanzo storico “I Tre Moschettieri”. Spadaccino realmente vissuto, fu moschettiere e fidato agente di Mazzarino, il cardinale che governò la Francia di metà ‘600. Dovete sapere che nel 1665 la municipalità di Pinerolo (To), ricevette la visita del capitano d’Artagnan, che con un gruppo di moschettieri consegnò alla fortezza di quella città, per ordine di Luigi XIV , un prigioniero condannato all’ergastolo. Terminata la missione, d’Artagnan e compagni chiesero di essere rifocillati dopo la lunga cavalcata. Ma sfortunatamente a Pinerolo non c’era di che sfamare i moschettieri e allora furono mandati dei messi a Torino, a procurar fagiani, oche, tacchini, pernici e lepri. Una volta trovate, le cibarie furono portate all’alloggio di d’Artagnan e un cuoco domandò al capitano cosa preferisse per cena. Il moschettiere, adocchiata un’oca, oscillante fra i sei e sette chili, la infilzò con la spada dicendo: “Questa!”.
Alcuni giudicano l’episodio troppo romanzesco, comunque, in ricordo di ciò, vi consiglio d’assaggiare l’estasi gastronomica dell’oca ripiena.
Preparazione
Prendete un’oca, pulitela, fiammeggiatela, lavatela e togliete tutto il grasso dall’interno della cavità addominale. Lessate alcune patate con la buccia e ancora calde, sbucciatele e passatele allo schiaccia patate. Fate rosolare per alcuni minuti in una casseruola un po’ di burro, con un trito di cipolla e il fegato dell’oca lavato e sminuzzato finemente. Quando il tutto sarà ben rosolato, unite la purea delle patate, un po’ di timo, alcune foglie di salvia, sale e abbondante pepe. Amalgamate bene il composto con il quale riempirete l’oca. Ricucitela, legatela con uno spago, spalmatela di burro, salatela leggermente e disponetela in una teglia, nella quale verserete un bicchiere d’acqua. Passate in forno caldo, avendo cura ripetutamente di rigirare e bagnare l’oca con il fondo di cottura. La carne sarà pronta quando avrà formato una crosticina croccante. Portate l’oca alla d’Artagnan in tavola e tagliatela direttamente davanti ai commensali.
Dessert - Torta di Carote
Dal Grande Dizionario di Cucina di Alexandre Dumas.
Ingredienti
Carote – crema pasticcera – canditi d’arancio (o cannella) – zucchero vanigliato – uova
Preparazione
Lessare delle carote ben pulite in acqua salata.
Ridurre a purea e passarla in una casseruola ad asciugare sul fuoco.
Preparare una crema pasticcera ed incorporarla alla purea di carote aggiungendo un pizzico di canditi d’arancio tritati, zucchero vanigliato, rossi d’uovo, e i bianchi montati a neve.
Passare il composto in una teglia imburrata e cosparsa con pangrattato.
Infornare e servire la torta di carote calda o fredda.
Fonte
Le quasi 3000 ricette consigliate, arricchite da 500 stampe d’epoca, spaziano dalle preparazioni internazionali ai piatti tradizionali. Ma Alexander Dumas ha descritto anche, per la prima volta in un libro, la versione della pizza con il pomodoro (l’opera del 1835, è una raccolta di sue esperienze fatte durante un viaggio a Napoli).
E’ però con un aneddoto che voglio testimoniarvi lo smisurato appetito di questo grande narratore.
Durante il colera, mentre divorava meloni con fanciullesca avidità, al figlio che gli obiettava la pericolosità di quei frutti in tempo d’epidemia, avrebbe risposto: "Sarebbe un peccato non mangiarli, non costano nulla".
Il pranzo del Conte di Montecristo
Dumas ha immortalato nel Conte di Montecristo, ambientato a Marsiglia a partire dal 1815, anche la vita e l’atmosfera che si respirava all’epoca in quel porto. Stoffe, seta, olio, cereali, agrumi, arrivavano dalle località più disparate come: Smirne, Trieste e Napoli, per raggiungere da qui i mercati di Parigi.
Ma adesso vogliamo riportarvi un passo di questo celebre romanzo, dedicato al pranzo offerto dal “conte” Edmondo Dantes alla nobiltà parigina.
“…Il pranzo fu magnifico. Montecristo si era proposto di rovesciare completamente l’etichetta parigina, e di saziare più la curiosità che l’appetito dei convitati, fu un banchetto orientale come potevano esserlo i banchetti delle fate arabe. Tutti i frutti, che le quattro parti del mondo possono versare intatti e saporosi nel corno d’abbondanza d’Europa, erano riuniti ed ammonticchiati in piramidi entro vasi di Cina e sottocoppe del Giappone. Uccelli rari, colla parte più brillante delle loro penne, pesci mostruosi stesi su lastre d’argento, tutti i vini dell’Arcipelago, dell’Asia Minore… passarono successivamente (come una di quelle girandole di portate che Apicio faceva passare sui convitati) davanti a questi parigini, che comprendevano potersi spendere mille luigi in un pranzo di dieci persone, ma a condizione che, come Cleopatra, si mangiassero delle perle, o che, come Lorenzo il Magnifico, si bevesse dell’oro fuso. Montecristo vide lo stupore generale, e si mise a ridere ed a scherzare ad alta voce…”.
Oca ripiena alla d’Artagnan
Charles de Batz-Castelmore conte d'Artagnan è stato immortalato da Alexander Dumas padre fra i protagonisti del romanzo storico “I Tre Moschettieri”. Spadaccino realmente vissuto, fu moschettiere e fidato agente di Mazzarino, il cardinale che governò la Francia di metà ‘600. Dovete sapere che nel 1665 la municipalità di Pinerolo (To), ricevette la visita del capitano d’Artagnan, che con un gruppo di moschettieri consegnò alla fortezza di quella città, per ordine di Luigi XIV , un prigioniero condannato all’ergastolo. Terminata la missione, d’Artagnan e compagni chiesero di essere rifocillati dopo la lunga cavalcata. Ma sfortunatamente a Pinerolo non c’era di che sfamare i moschettieri e allora furono mandati dei messi a Torino, a procurar fagiani, oche, tacchini, pernici e lepri. Una volta trovate, le cibarie furono portate all’alloggio di d’Artagnan e un cuoco domandò al capitano cosa preferisse per cena. Il moschettiere, adocchiata un’oca, oscillante fra i sei e sette chili, la infilzò con la spada dicendo: “Questa!”.
Alcuni giudicano l’episodio troppo romanzesco, comunque, in ricordo di ciò, vi consiglio d’assaggiare l’estasi gastronomica dell’oca ripiena.
Preparazione
Prendete un’oca, pulitela, fiammeggiatela, lavatela e togliete tutto il grasso dall’interno della cavità addominale. Lessate alcune patate con la buccia e ancora calde, sbucciatele e passatele allo schiaccia patate. Fate rosolare per alcuni minuti in una casseruola un po’ di burro, con un trito di cipolla e il fegato dell’oca lavato e sminuzzato finemente. Quando il tutto sarà ben rosolato, unite la purea delle patate, un po’ di timo, alcune foglie di salvia, sale e abbondante pepe. Amalgamate bene il composto con il quale riempirete l’oca. Ricucitela, legatela con uno spago, spalmatela di burro, salatela leggermente e disponetela in una teglia, nella quale verserete un bicchiere d’acqua. Passate in forno caldo, avendo cura ripetutamente di rigirare e bagnare l’oca con il fondo di cottura. La carne sarà pronta quando avrà formato una crosticina croccante. Portate l’oca alla d’Artagnan in tavola e tagliatela direttamente davanti ai commensali.
Dessert - Torta di Carote
Dal Grande Dizionario di Cucina di Alexandre Dumas.
Ingredienti
Carote – crema pasticcera – canditi d’arancio (o cannella) – zucchero vanigliato – uova
Preparazione
Lessare delle carote ben pulite in acqua salata.
Ridurre a purea e passarla in una casseruola ad asciugare sul fuoco.
Preparare una crema pasticcera ed incorporarla alla purea di carote aggiungendo un pizzico di canditi d’arancio tritati, zucchero vanigliato, rossi d’uovo, e i bianchi montati a neve.
Passare il composto in una teglia imburrata e cosparsa con pangrattato.
Infornare e servire la torta di carote calda o fredda.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
sabato 4 giugno 2011
Consigli dai birrifici
Con questa musica , la birreria artigianale Turan, consiglia la birra Tuscia (riserva), una Belgium
Dark Strong Ale, ad alta fermentazione, con 10,1 di gradazione alcolica.
Il cioccolato tra le righe
Fu soprattutto la sobrietà della vetrina a piacergli. Niente fronzoli, niente orpelli, niente scatoline con nastrini rosa, ma solo e unicamente cioccolato. Ripensandoci, si rendeva conto che era una sobrietà diversa da quella moderna, trendy, che gli faceva orrore, diversa da quel design paranoico, freddo e distaccato, che sembrava studiato apposta per far apparire il cibo immangiabile. No. Lì i cioccolatini erano esposti uno accanto all'altro in modo tranquillo, naturale. Non avevano bisogno di dimostrare niente, bastava guardarli per capire che erano di alta qualità, al punto che Joop, pur continuando a non essere un grande amante del cioccolato, si sentì venire l'acquolina in bocca.
Philibert Schogt "La bottega del cioccolato"
Philibert Schogt "La bottega del cioccolato"
venerdì 3 giugno 2011
Le ricette del birraio
Carpaccio di baccalà marinato all’Orval con insalatina di asparagi di mare e ciliegie
Ingredienti per 4 persone
300g baccalà alto dissalato
2 bottiglie da 33 cl. di birra Orval
150g di asparagi di mare
12 ciliegie
olio extravergine d’oliva
1 patata
pepe nero macinato
1 spicchio d’aglio
Preparazione
Marinate il baccalà ben dissalato e le patate affettate sottilmente nella birra per almeno 5 ore tenendolo coperto e al fresco in frigo.
Nel frattempo scottate gli asparagi di mare in acqua bollente per due minuti circa. Mettete un goccio d’olio in una padella antiaderente e aggiungete l’aglio tagliato a metà, fatelo rosolare, toglietelo e aggiungete gli asparagi. Saltate per pochi minuti e aggiungete le ciliegie private del nocciolo e tagliate in quattro parti ciascuna. Sistemate il tutto al centro dei piatti.
Togliete il baccalà dalla birra, asciugatelo e tagliatelo in fette molto sottili. Coprite quasi interamente gli asparagi con le fette, condite con pepe macinato e un filo di olio extravergine di oliva. Friggete le patate asciugate, a 180° C , salatele e ponetele sopra al baccalà. Servite subito.
La birra
Nome: ORVAL
Birrificio: ORVAL
Tipo: TRAPPISTA
Colore: AMBRATO
Alcool: 6.2% vol.
Ingredienti per 4 persone
300g baccalà alto dissalato
2 bottiglie da 33 cl. di birra Orval
150g di asparagi di mare
12 ciliegie
olio extravergine d’oliva
1 patata
pepe nero macinato
1 spicchio d’aglio
Preparazione
Marinate il baccalà ben dissalato e le patate affettate sottilmente nella birra per almeno 5 ore tenendolo coperto e al fresco in frigo.
Nel frattempo scottate gli asparagi di mare in acqua bollente per due minuti circa. Mettete un goccio d’olio in una padella antiaderente e aggiungete l’aglio tagliato a metà, fatelo rosolare, toglietelo e aggiungete gli asparagi. Saltate per pochi minuti e aggiungete le ciliegie private del nocciolo e tagliate in quattro parti ciascuna. Sistemate il tutto al centro dei piatti.
Togliete il baccalà dalla birra, asciugatelo e tagliatelo in fette molto sottili. Coprite quasi interamente gli asparagi con le fette, condite con pepe macinato e un filo di olio extravergine di oliva. Friggete le patate asciugate, a 180° C , salatele e ponetele sopra al baccalà. Servite subito.
La birra
Nome: ORVAL
Birrificio: ORVAL
Tipo: TRAPPISTA
Colore: AMBRATO
Alcool: 6.2% vol.
Il cibo nei romanzi
Vide nella vetrina di una salumeria delle lumache cucinate in una salsa di burro e prezzemolo che sembravano davvero appetitose.
A sua moglie le lumache non piacevano e lui le mangiava di rado. Decise quindi di concedersele quella sera, di "approfittarne" insomma, e ritornò sui suoi passi: c'era un ristorante vicino alla Bastille la cui specialità erano proprio le lumache.
Georges Simenon ( Maigret e l'affittacamere )
A sua moglie le lumache non piacevano e lui le mangiava di rado. Decise quindi di concedersele quella sera, di "approfittarne" insomma, e ritornò sui suoi passi: c'era un ristorante vicino alla Bastille la cui specialità erano proprio le lumache.
Georges Simenon ( Maigret e l'affittacamere )
Consigli dai birrifici
Con questa canzone , la birreria artigianale
Turan, consiglia la birra oOps, una Ale ambrata con cardamomo, ad alta fermentazione, con 5,5 di gradazione alcolica.
Salvador Dalì ed il surrealismo gastronomico
Sregolato, eccentrico, esagerato, famelico come solo un genio può esserlo.
Durante la sua vita ha operato in diversi campi dell'arte: pittore, scrittore, illustratore, scenografo, disegnatore di gioielli e mobili.
È stato uno degli elementi di spicco del Surrealismo, il movimento che tendeva ad esprimere l'io interiore in piena libertà senza l'intervento della ragione.
Dotato di grande immaginazione, aveva il vezzo di assumere atteggiamenti stravaganti per attirare l'attenzione.
Nel suo testo “Confessioni inconfessabili” evidenzia come la vita era per lui “gastronomica, spermatica ed esistenziale”.
L’amore per il cibo non gli dava tregua, perché generato in lui addirittura prima di essere venuto al mondo:
“Immagino che i miei lettori non ricorderanno, o soltanto molto vagamente, quell’importantissimo periodo della loro vita precedente alla nascita e che trascorse nel seno della loro madre.
Ma io si; ricordo quel periodo come se fosse ieri […] Già a quel tempo, tutto il piacere, tutto l’incanto, risiedeva, per me, nei miei occhi; e la visione più splendida, più impressionante, era quella di un paio di uova fritte in padella, senza la padella però; probabilmente a ciò si deve il turbamento, l’emozione che ho sperimentato da allora, durante il resto della mia vita, davanti questa immagine sempre, per me, allucinante”(da Vita segreta).
Dalì indossava a mo di copricapo delle pagnotte dorate triangolari dicendo:
“Tutti i miei gusti corrispondono alle idee che avevo già da bambino. Per esempio il pane che mi metto spesso sulla testa è un cappello con il quale mi presentai a casa quando avevo sei anni.
Svuotai un pan de crostons, questa forma di pane catalano a tre punte, e lo misi in testa per stupire i miei genitori.”
Uova, spaghetti, pane, crostacei, anatre, formaggi, zampe di maiale, lumache o cioccolato erano gli alimenti che lo ispiravano. I celeberrimi orologi molli, pare vennero dipinti sullo stimolo di una forma di Camembert, oppure il ritratto del “bacon fritto”, sembra si ricollegasse alle colazioni dei soggiorni statunitensi.
Del rapporto creativo che il catalano aveva con la cucina, ricordiamo anche i disegni realizzati per le copertine dei menù da ristorante.
Spaghetti alla Dalì
Lessare degli spaghetti.
Pulire del prezzemolo e tritarlo insieme a foglie di salvia e basilico.
Scolare del tonno e sbriciolarlo; unirvi delle acciughe sminuzzate e il trito di erbe amalgamando bene il tutto.
Nel frattempo, cialdellare dell’aglio a pezzetti in olio d’oliva, unirvi il composto di tonno, e lasciar insaporire a fuoco lento.
Scolare gli spaghetti, versarli in una zuppiera e condirli con la salsa ben calda.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Durante la sua vita ha operato in diversi campi dell'arte: pittore, scrittore, illustratore, scenografo, disegnatore di gioielli e mobili.
È stato uno degli elementi di spicco del Surrealismo, il movimento che tendeva ad esprimere l'io interiore in piena libertà senza l'intervento della ragione.
Dotato di grande immaginazione, aveva il vezzo di assumere atteggiamenti stravaganti per attirare l'attenzione.
Nel suo testo “Confessioni inconfessabili” evidenzia come la vita era per lui “gastronomica, spermatica ed esistenziale”.
L’amore per il cibo non gli dava tregua, perché generato in lui addirittura prima di essere venuto al mondo:
“Immagino che i miei lettori non ricorderanno, o soltanto molto vagamente, quell’importantissimo periodo della loro vita precedente alla nascita e che trascorse nel seno della loro madre.
Ma io si; ricordo quel periodo come se fosse ieri […] Già a quel tempo, tutto il piacere, tutto l’incanto, risiedeva, per me, nei miei occhi; e la visione più splendida, più impressionante, era quella di un paio di uova fritte in padella, senza la padella però; probabilmente a ciò si deve il turbamento, l’emozione che ho sperimentato da allora, durante il resto della mia vita, davanti questa immagine sempre, per me, allucinante”(da Vita segreta).
Dalì indossava a mo di copricapo delle pagnotte dorate triangolari dicendo:
“Tutti i miei gusti corrispondono alle idee che avevo già da bambino. Per esempio il pane che mi metto spesso sulla testa è un cappello con il quale mi presentai a casa quando avevo sei anni.
Svuotai un pan de crostons, questa forma di pane catalano a tre punte, e lo misi in testa per stupire i miei genitori.”
Uova, spaghetti, pane, crostacei, anatre, formaggi, zampe di maiale, lumache o cioccolato erano gli alimenti che lo ispiravano. I celeberrimi orologi molli, pare vennero dipinti sullo stimolo di una forma di Camembert, oppure il ritratto del “bacon fritto”, sembra si ricollegasse alle colazioni dei soggiorni statunitensi.
Del rapporto creativo che il catalano aveva con la cucina, ricordiamo anche i disegni realizzati per le copertine dei menù da ristorante.
Spaghetti alla Dalì
Lessare degli spaghetti.
Pulire del prezzemolo e tritarlo insieme a foglie di salvia e basilico.
Scolare del tonno e sbriciolarlo; unirvi delle acciughe sminuzzate e il trito di erbe amalgamando bene il tutto.
Nel frattempo, cialdellare dell’aglio a pezzetti in olio d’oliva, unirvi il composto di tonno, e lasciar insaporire a fuoco lento.
Scolare gli spaghetti, versarli in una zuppiera e condirli con la salsa ben calda.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Ricette (insalate)
Insalata Belga con salame
Ingredienti per 4 persone
4 Cespi di Insalata Belga (indivia)
1 Salame Cacciatorino
8 Noci Sgusciate
5 Cucchiai di Maionese
1 Cucchiaio di Senape
Alcune Gocce di Salsa Worcester
1 Cucchiaio di Aceto Di Vino
3 Cucchiai di Olio D'oliva Extra-vergine
Preparazione
Mondate i cespi di indivia, asportando le foglie più esterne, lavateli, lasciateli scolare a lungo capovolti in un cestello. Quindi affettateli finemente. Affettate sottilmente il salame e sminuzzate i gherigli di noci. Amalgamate in una ciotola la salsa maionese con una cucchiaiata di senape, poi stemperatela con qualche goccia di salsa Worcester, l'olio e l'aceto, aggiungendoli a filo e rimescolando di continuo, con un cucchiaio di legno. Riunite in un'insalatiera l'insalata, il salame e i gherigli di noci, versate la salsina di condimento, rimescolate con delicatezza e servite subito o tenete al fresco fino al momento di portare in tavola.
Ingredienti per 4 persone
4 Cespi di Insalata Belga (indivia)
1 Salame Cacciatorino
8 Noci Sgusciate
5 Cucchiai di Maionese
1 Cucchiaio di Senape
Alcune Gocce di Salsa Worcester
1 Cucchiaio di Aceto Di Vino
3 Cucchiai di Olio D'oliva Extra-vergine
Preparazione
Mondate i cespi di indivia, asportando le foglie più esterne, lavateli, lasciateli scolare a lungo capovolti in un cestello. Quindi affettateli finemente. Affettate sottilmente il salame e sminuzzate i gherigli di noci. Amalgamate in una ciotola la salsa maionese con una cucchiaiata di senape, poi stemperatela con qualche goccia di salsa Worcester, l'olio e l'aceto, aggiungendoli a filo e rimescolando di continuo, con un cucchiaio di legno. Riunite in un'insalatiera l'insalata, il salame e i gherigli di noci, versate la salsina di condimento, rimescolate con delicatezza e servite subito o tenete al fresco fino al momento di portare in tavola.
giovedì 2 giugno 2011
Leonardo da Vinci tra marchingegni e spezie
"Era tanto piacevole nella conversazione che tirava a se gl'animi delle genti".
Vasari così descrive ne "Le vite" Leonardo da Vinci, il veramente mirabile pittore, scultore, teorico dell’arte, musico, scrittore, ingegnere meccanico, architetto, scenografo, maestro fonditore, esperto d’artiglieria, inventore, scienziato.
Nacque nel 1452 dal notaio Piero e da Caterina, giovane contadina al servizio della famiglia. Allevato esclusivamente dal padre nella campagna di Vinci, nei suoi primi quindici anni fu libero di osservare la bellezza del paesaggio e ammirare il lavoro dei contadini, dai quali successivamente prenderà l’ispirazione per ideare macchine agricole, frantoi meccanici, aratri per “andar diritto” e macine da grano.
La sua vita ebbe una svolta nel 1576 quando il padre, che rivestiva un ruolo importante nella cerchia della famiglia Medici, lo fece trasferire a Firenze. Qui Leonardo, attratto dalla bellezza di una città traboccante d’opere d’arte, s’interessò alle molteplici tecniche che nelle “botteghe” venivano sperimentate, sviluppando un talento artistico del tutto speciale. Fu così che il padre, accorgendosi delle doti del figlio e nonostante lo volesse notaio, si decise a contattare uno dei migliori maestri dell’epoca: “Mastro Verrochio”. Diciassettenne, Leonardo arrivò finalmente a bottega . Da allora e per molti anni, grazie all’inestinguibile curiosità di studiare, disegnare, sperimentare, progettare macchinari, espresse il suo genio oltre che a Firenze anche a Milano, Roma e in Francia.
Le varie corti che l'ospitarono non gli fecero solo realizzare grandi opere, ma ne sfruttarono le conoscenze per creare quei macchinari che offrivano giochi scenici nei sontuosi banchetti.
Grazie agli scritti lasciati nel Codice Atlantico possiamo desumere che Leonardo conosceva e sperimentava erbe o spezie, tra queste curcuma, aloe, zafferano, fiori di papavero, fiordalisi, ginestre, olio di semenza di senape e olio di lino. Il Genio negli ultimi anni della sua vita firmò pure un’inedita bevanda. *Voglio adesso raccontarvi una favoletta gastronomica che lo vedrebbe protagonista. Durante la sua gioventù, Leonardo avrebbe fondato con l’amico Botticelli "Le Tre Rane”, un osteria in prossimità di Ponte Vecchio, dove sembra sperimentò alcune delle idee che ritroviamo nei suoi disegni, quali lo strumento tritura cibo e un marchingegno per automatizzare lo spiedo degli arrosti.
Qui la clientela sceglieva il menù, sia leggendo le pietanze scritte da destra a sinistra dal mancino Leonardo, sia indicando le immagini disegnate dal Botticelli. Ricco l’elenco delle portate: dalla ribollita all’arista, dal baccalà ai ranocchi fritti. Malgrado l'inventiva di Sandro e Leonardo, l’osteria non ebbe lunga vita facendo perdere tracce di se.
Carabaccia per Leonardo
Sin dai tempi più remoti la cipolla era diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. Ricette tipo la “carabaccia” o come la “cipollata”, si trovano quindi in diverse aree non solo italiane. Il nome carabaccia viene dal greco “karabos” che vuol dire barca a forma di guscio. Dal concetto di guscio si è poi passati al concetto di zuppiera e quindi di zuppa. Leonardo da Vinci sembra la degustasse in occasione dei diversi banchetti che lo vedevano ospite.
La carabaccia, citata da Cristoforo da Messisbugo nel ‘500, è descritta come “Carabazada”. Nella ricetta originale figurano, oltre alle cipolle, mandorle pelate e pestate nel mortaio, aceto d’agresto, cannella e poco zucchero.
Preparazione
Pulite e tagliate delle cipolle a fettine sottili e mettetele in un recipiente di terracotta a rosolare con dell’olio d’oliva. Cuocere lentamente a recipiente coperto per mezz’ora, avendo cura di aggiungere un paio di cucchiai d’acqua.
Salate, pepate, versate abbondante brodo e continuate la cottura a recipiente scoperto per un’altra mezz’ora. Mettete in delle scodelle di portata alcune fette di pane abbrustolito e versateci sopra la zuppa ottenuta.
Prima di gustare la carabaccia, informaggiatela bene e aspettate qualche minuto.
Cosciotto d'agnello cotto alla Leonardo
L'utilissima invenzione di Leonardo dello spiedo azionato dal calore del fuoco, ci spinge a proporvi questa preparazione, anche se sembra che il grande artista preferisse il cibo vegetariano.
Prendete un cosciotto o un quarto d’agnello, bucatelo qua e là, insaporitelo con sale, pepe, olio, aceto, e lasciatelo in questa marinatura per diverse ore.
Infilzate il cosciotto d’agnello nello spiedo e durante la rosolatura, al fine di mantenere la carne morbida, cospargetelo con il liquido di marinata utilizzando un ramoscello di rosmarino.
Piacendovi più pronunziato l’odore del rpsmarino, potete steccare il pezzo di carne con alcune ciocche del medesimo, avendo cura di toglierle prima di mandarlo in tavola.
*L'Acquarosa di Leonardo
E’ sicuro che il da Vinci abbia firmato negli ultimi anni della sua vita un’inedita bevanda: “l'Acquarosa di Leonardo'”.
La ricetta, rintracciabile nel Codice Atlantico conservato a Milano alla Biblioteca Ambrosiana, è descritta con precisione negli ingredienti (acquarosa, zucchero, limone) e nel sistema di filtraggio (colati in “tela bianca”).
La bevanda, riscoperta e presentata per la prima volta dal Museo Ideale Leonardo Da Vinci di Vinci, doveva essere servita fresca, ed era definita da Leonardo adatta all’estate calda dei Turchi.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Vasari così descrive ne "Le vite" Leonardo da Vinci, il veramente mirabile pittore, scultore, teorico dell’arte, musico, scrittore, ingegnere meccanico, architetto, scenografo, maestro fonditore, esperto d’artiglieria, inventore, scienziato.
Nacque nel 1452 dal notaio Piero e da Caterina, giovane contadina al servizio della famiglia. Allevato esclusivamente dal padre nella campagna di Vinci, nei suoi primi quindici anni fu libero di osservare la bellezza del paesaggio e ammirare il lavoro dei contadini, dai quali successivamente prenderà l’ispirazione per ideare macchine agricole, frantoi meccanici, aratri per “andar diritto” e macine da grano.
La sua vita ebbe una svolta nel 1576 quando il padre, che rivestiva un ruolo importante nella cerchia della famiglia Medici, lo fece trasferire a Firenze. Qui Leonardo, attratto dalla bellezza di una città traboccante d’opere d’arte, s’interessò alle molteplici tecniche che nelle “botteghe” venivano sperimentate, sviluppando un talento artistico del tutto speciale. Fu così che il padre, accorgendosi delle doti del figlio e nonostante lo volesse notaio, si decise a contattare uno dei migliori maestri dell’epoca: “Mastro Verrochio”. Diciassettenne, Leonardo arrivò finalmente a bottega . Da allora e per molti anni, grazie all’inestinguibile curiosità di studiare, disegnare, sperimentare, progettare macchinari, espresse il suo genio oltre che a Firenze anche a Milano, Roma e in Francia.
Le varie corti che l'ospitarono non gli fecero solo realizzare grandi opere, ma ne sfruttarono le conoscenze per creare quei macchinari che offrivano giochi scenici nei sontuosi banchetti.
Grazie agli scritti lasciati nel Codice Atlantico possiamo desumere che Leonardo conosceva e sperimentava erbe o spezie, tra queste curcuma, aloe, zafferano, fiori di papavero, fiordalisi, ginestre, olio di semenza di senape e olio di lino. Il Genio negli ultimi anni della sua vita firmò pure un’inedita bevanda. *Voglio adesso raccontarvi una favoletta gastronomica che lo vedrebbe protagonista. Durante la sua gioventù, Leonardo avrebbe fondato con l’amico Botticelli "Le Tre Rane”, un osteria in prossimità di Ponte Vecchio, dove sembra sperimentò alcune delle idee che ritroviamo nei suoi disegni, quali lo strumento tritura cibo e un marchingegno per automatizzare lo spiedo degli arrosti.
Qui la clientela sceglieva il menù, sia leggendo le pietanze scritte da destra a sinistra dal mancino Leonardo, sia indicando le immagini disegnate dal Botticelli. Ricco l’elenco delle portate: dalla ribollita all’arista, dal baccalà ai ranocchi fritti. Malgrado l'inventiva di Sandro e Leonardo, l’osteria non ebbe lunga vita facendo perdere tracce di se.
Carabaccia per Leonardo
Sin dai tempi più remoti la cipolla era diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. Ricette tipo la “carabaccia” o come la “cipollata”, si trovano quindi in diverse aree non solo italiane. Il nome carabaccia viene dal greco “karabos” che vuol dire barca a forma di guscio. Dal concetto di guscio si è poi passati al concetto di zuppiera e quindi di zuppa. Leonardo da Vinci sembra la degustasse in occasione dei diversi banchetti che lo vedevano ospite.
La carabaccia, citata da Cristoforo da Messisbugo nel ‘500, è descritta come “Carabazada”. Nella ricetta originale figurano, oltre alle cipolle, mandorle pelate e pestate nel mortaio, aceto d’agresto, cannella e poco zucchero.
Preparazione
Pulite e tagliate delle cipolle a fettine sottili e mettetele in un recipiente di terracotta a rosolare con dell’olio d’oliva. Cuocere lentamente a recipiente coperto per mezz’ora, avendo cura di aggiungere un paio di cucchiai d’acqua.
Salate, pepate, versate abbondante brodo e continuate la cottura a recipiente scoperto per un’altra mezz’ora. Mettete in delle scodelle di portata alcune fette di pane abbrustolito e versateci sopra la zuppa ottenuta.
Prima di gustare la carabaccia, informaggiatela bene e aspettate qualche minuto.
Cosciotto d'agnello cotto alla Leonardo
L'utilissima invenzione di Leonardo dello spiedo azionato dal calore del fuoco, ci spinge a proporvi questa preparazione, anche se sembra che il grande artista preferisse il cibo vegetariano.
Prendete un cosciotto o un quarto d’agnello, bucatelo qua e là, insaporitelo con sale, pepe, olio, aceto, e lasciatelo in questa marinatura per diverse ore.
Infilzate il cosciotto d’agnello nello spiedo e durante la rosolatura, al fine di mantenere la carne morbida, cospargetelo con il liquido di marinata utilizzando un ramoscello di rosmarino.
Piacendovi più pronunziato l’odore del rpsmarino, potete steccare il pezzo di carne con alcune ciocche del medesimo, avendo cura di toglierle prima di mandarlo in tavola.
*L'Acquarosa di Leonardo
E’ sicuro che il da Vinci abbia firmato negli ultimi anni della sua vita un’inedita bevanda: “l'Acquarosa di Leonardo'”.
La ricetta, rintracciabile nel Codice Atlantico conservato a Milano alla Biblioteca Ambrosiana, è descritta con precisione negli ingredienti (acquarosa, zucchero, limone) e nel sistema di filtraggio (colati in “tela bianca”).
La bevanda, riscoperta e presentata per la prima volta dal Museo Ideale Leonardo Da Vinci di Vinci, doveva essere servita fresca, ed era definita da Leonardo adatta all’estate calda dei Turchi.
Fonte
TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
Trent'anni senza Rino Gaetano
Due giugno 1981, un'auto sfreccia sulla Nomentana, saranno le 4 , il giovane alla guida ha tirato tardi con gli amici. Dall'altra parte un commerciante su un camion sta andando a lavorare: una manovra sbagliata, chissà. E l'auto si schianta: quel giovane verrà rifiutato da cinque ospedali, prima di spegnersi. Quel giovane aveva 31 anni e si chiamava Rino Gaetano.
mercoledì 1 giugno 2011
Le Golose
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un'altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!
L'una, senz'abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!
Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Guido Gozzano
che mangiano le paste nelle confetterie.
Signore e signorine -
le dita senza guanto -
scelgon la pasta. Quanto
ritornano bambine!
Perché nïun le veda,
volgon le spalle, in fretta,
sollevan la veletta,
divorano la preda.
C'è quella che s'informa
pensosa della scelta;
quella che toglie svelta,
né cura tinta e forma.
L'una, pur mentre inghiotte,
già pensa al dopo, al poi;
e domina i vassoi
con le pupille ghiotte.
un'altra - il dolce crebbe -
muove le disperate
bianchissime al giulebbe
dita confetturate!
Un'altra, con bell'arte,
sugge la punta estrema:
invano! ché la crema
esce dall'altra parte!
L'una, senz'abbadare
a giovine che adocchi,
divora in pace. Gli occhi
altra solleva, e pare
sugga, in supremo annunzio,
non crema e cioccolatte,
ma superliquefatte
parole del D'Annunzio.
Fra questi aromi acuti,
strani, commisti troppo
di cedro, di sciroppo,
di creme, di velluti,
di essenze parigine,
di mammole, di chiome:
oh! le signore come
ritornano bambine!
Perché non m'è concesso -
o legge inopportuna! -
il farmivi da presso,
baciarvi ad una ad una,
o belle bocche intatte
di giovani signore,
baciarvi nel sapore
di crema e cioccolatte?
Io sono innamorato di tutte le signore
che mangiano le paste nelle confetterie.
Guido Gozzano
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