LE MARCHE
Quella della Marche è una confederazione di cucine. Posta al centro della penisola, s’identifica con l’antico territorio Piceno (IX – IV sec. a.C.), presentando ancor oggi una pluralità di dialetti, consuetudini e folclore. Gli usi gastronomici del Pesarese e del Montefeltro sono strettamente imparentati con quelli della confinante Romagna (minestre), così pure i piatti dell’ultimo lembo meridionale sono largamente influenzati da quelli dell’Abruzzo. Due sono gli aspetti della cucina locale corrispondenti alle caratteristiche geografiche della regione: quello dell'entroterra e quello marittimo.
L'aspetto contadino della cucina marchigiana è dominato dai funghi, dall'uso delle olive e dal tartufo. Quest'ultimo è il condimento sublime dei taglierini di fattura casalinga, proveniente dalle località del Pesarese, dell’Ascolano e del Maceratese, oggi garantisce un’importante risorsa integrativa all’economia rurale grazie al mercato di Acqualagna, dove si concentra un terzo dell’intera produzione annuale italiana. La gastronomia delle Marche, che possiede un vero e proprio gusto nel campo dei cibi imbottiti, ha una delle pietanze più rappresentative nelle olive all'ascolana, il cui cultivar era già apprezzato dai Romani.
I piatti forti dell’entroterra sono a base di carne di maiale, tra i quali spiccano la saporitissima porchetta, e il cotechino della fortezza di San Leo, che si dice mangiò anche Cagliostro quando vi finì rinchiuso.
Sulla costa delle Marche invece si può gustare una grande quantità di prodotti ittici. Piatto simbolo è il “brodetto di pesce”, interpretato diversamente in ogni porto, dal rosso (pomodoro) del Pesarese al giallo (zafferano) dell’Ascolano. In uso tra il fiume Conca (confine Romagna) e il Tronto (prima degli Abruzzi) c’è un il “potacchio”, derivante dal francese “potage”, che in quest’area non designa una zuppa bensì un intingolo ristretto maritato a stoccafisso, pollo o coniglio.
La cucina Anconetana e quella Maceratese esprimono il piatto unificante la regione: i vincisgrassi. ( Vedere post precedente )
Maccheroncini di Campofilone e gli altri marchigiani
Le Marche sono una regione dalle molte tradizioni e la pasta fatta in casa ha grande rilievo. A Pesaro e nel Montefeltro troviamo i “cappelletti”, tradizionale piatto dei giorni di festa, simili all’omonimo formato romagnolo ma riempiti di carne bovina, suina, cappone e tacchina. Non mancano poi tagliatelle, tagliolini, pappardelle, maltagliati, fatti di tutte le misure e tutti gli spessori per adattarsi al meglio all’incontro con i diversi condimenti, dai sughi preparati con il pesce fresco fino al tartufo.
Inoltrandosi nel territorio del Montefeltro troviamo i “passatelli” (serviti in brodo o asciutti) e le “millefoglie”, grossi quadrati di sfoglia all’uovo utilizzati prevalentemente nei pasticci al forno.
La tradizione rustica si sente ancora nelle “cresc’ tajat”, ruvidi quadrelli di sfoglia a base di farina di mais, ottimi con fagioli, ceci e fave.
La pasta senza l’uovo, tagliata lunga a sezione quadrata o rettangolare si manifesta nei “tajuli pilusi” (tagliolini pelosi), cosi indicati per il velo superficiale che si forma dopo la cottura, causato della scarsa coesione dell’impasto.
Anche la pasta di produzione industriale trova nelle Marche grande attenzione: accanto ad aziende prestigiose troviamo realtà più piccole ma altamente qualificate, come i numerosi pastifici che producono pasta al farro, cereale la cui coltivazione è molto diffusa nella regione.
Per finire segnaliamo i due tipi di pasta più noti: i “vincisgrassi” (ricchissimo pasticcio), e i lunghi e sottilissimi “maccheroncini di Campofilone”. Questi ultimi, tagliati con coltelli affilatissimi e noti fin dal ‘400 come “maccheroncini fini fini”, dopo la cottura hanno un’elevata porosità perchè preparati con molte uova (dieci per un kg semola grano duro), risultando così ottimi sia in brodo che asciutti.
Salumi marchigiani
Tra i vecchi dei paesi dell’entroterra marchigiano è ancora vivo il ricordo della “pista” (macellazione del suino), autentico rito sacrificale collettivo, che si svolgeva nelle campagne, durante il quale del maiale non si buttava via niente.
In questa terra collinare ammantate di vitigni, colture e oliveti, l’arte del salume ha preservato un forte legame con la radicata cultura contadina.
Accanto alla produzione del Prosciutto di Carpegna, del Salame di Fabriano, della Soppressata di Fabriano, e della Lonza (collo maiale disossato), nelle Marche è diffusa una lavorazione artigianale che talvolta è finalizzata al solo autoconsumo.
Segnaliamo il Ciarimbolo (di forma nastriforme, fatto con le budella del suino bollite, condite e asciugate lentamente al fuoco), i Ciauscoli o Ciauvuscoli (dal latino “cibusculum” piccolo cibo prezioso, crema di salame da spalmare), il Mezzofegato (salsiccia matta preparata con scarti della lavorazione del maiale), la Salsiccia di fegato e la Spalletta.
I salumi marchigiani sprigionano le inconfondibili note dell’aglio e del finocchio, aromi rintracciabili anche nei sughi, nei ragù, nei ripieni e nelle carni in porchetta della tradizione gastronomica locale.
Crescia , filone e gli altri marchigiani
Le Marche sono una terra dove i pani, le focacce e i dolci lievitati creano le mille facce di una gastronomia che ha saputo utilizzare l'abbondanza di frumento. Ogni paese lo ha fatto a modo suo, sfruttando astutamente materie prime di volta in volta differenti, creando feste popolari e riti collettivi.
Già granaio dei latini, fertile produttrice di farro e successivamente di mais, questa regione trasforma ogni occasione in un momento di arte bianca: la vendemmia nei pani al mosto; la raccolta delle noci nel pan nociato; le festività religiose nei pani di Pasqua; la raccolta del grano nel pan dei mietitori.
-Crescia sfogliata di Urbino;
- Crescia maceratese : ha vari nomi gergali, ma è spesso chiamata pizza bianca. Originariamente veniva fatta una o due volte a settimana con l’impasto avanzato dalla preparazione del pane. In genere rotonda, presenta piccola infossature sulla superficie dovute alla pressione delle dita, che hanno la funzione di trattenere meglio l’olio. La crescia è condita comunemente con sale e olio, e a volte con rosmarino e cipolle. Varianti molto apprezzate: la crescia di granturco, la crescia con gli sgriscioli (ciccioli di maiale), e la la “caccia ‘nnanza (estrai prima), versione ascolana, che veniva cotta nel forno a legna prima dei filoni di pane, per verificarne la temperatura;
- Crostolo del Montefeltro : tipico dell’alto Montefeltro simile solo esteriormente alla piadina romagnola, e a gran parte delle focaccia di forma rotonda dell’area mediterranea, di origine rituale e simboleggianti il disco solare. L’impasto, cotto su una piastra d’argilla, si compone di farina di grano tenero, uova, sale, pepe, strutto, acqua, latte, bicarbonato e talvolta siero della lavorazione del formaggio. Un’antica sua variante, il crostolo di Urbania, viene ricavato dalla polenta che resta attaccata alle pareti del caldaio.
- Filone casereccio : rappresenta il simbolo della tradizione panificatoria di qualità delle Marche. Il peso d’ogni pezzo è di circa un chilo, la crosta dorata e la mollica spugnosa con alveoli distribuiti uniformemente.
- Filone integrale : la versione integrale del filone casereccio realizzata con farina ricca di crusca.
- Focaccia farcita : tipica delle aree interne ascolane, cotta il giorno precedente al suo consumo e ripassata in padella col lardo, è la versione “ricca” del classico pasto del contadino. Fatta con due sfoglie imbottite di verdure precedentemente lessate (erbe campo o altro a seconda della stagione). Sua variante più diffusa è il “chichì ripieno” (termine infantile per connotare una pizza), focaccia molto sottile arricchita da un po’ di strutto, e ripiena di alici, tonno, carciofi e olive verdi, sembra di origine ottomana o quantomeno molto somigliante al “lahmagiun” armeno.
- Pane di Chiaserna : dalle notevoli qualità organolettiche dovute alla favorevolissima posizione geografica e al clima temperato. Di lunga lavorazione, dal sapore leggermente acidulo, è un pane disponibile in pezzature da un chilo o cinquecento grammi, con mollica spugnosa dal colore bianco tendente al grigio e alveolatura regolare.
- Pane di farro : cereale di antichissima tradizione, uno dei simboli della civiltà dei Piceni, che lo utilizzavano nel rituale della “confarratio” (nome derivato dal cereale), scambio simbolico di un omaggio tra le famiglie dei promessi sposi. Il pane di farro, dal colore piuttosto scuro, e il pane di grano, hanno in comune la tecnica della loro preparazione.
Anicetti , Bostrengo e Visner
La dolciaria marchigiana presenta due elementi distintivi: l’anice e i fichi. L’anice, raccolta sui Monti Sibillini, viene utilizzata soprattutto per la preparazione dei celebri liquori che danno l’aroma a vari dolci fra i quali gli Anicetti (biscottini) e il Ciambellone.
I fichi sono l’ingrediente rilevante nell’impasto dell’arcaico Fristingo (assieme al miele e alla frutta secca), del caratteristico Torrone, o dell’insaccato dolce detto “Lonzino” (fatto con anice, rum, mandorle e noci).
Fra le “dolcezze” delle Marche, c’è anche da segnalare: il “Bostrengo”, il Visner, e gli Scroccafusi (dolcetti di carnevale).
Il Bustrengo (o bustrengo) è il dolce delle occasioni speciali, tipico delle zone montane, soprannominato “pulisci credenza” per la sua ricetta variabile basata su riso e farina di castagne.
Il Visner è una bevanda, sembra già prediletta da Federico da Montefeltro, chiamata anche vino di visciole (amarene). Veniva fatta dai contadini, cogliendo a fine giugno le visciole dalle piante selvatiche e mettendole a macerare nel vino. La sua delizia nasceva dal sovrapporsi del sapore del frutto alla trama del vino, e dall’intrecciarsi del dolce con l’amaro e l’acidulo. D’origine casalinga anche la ricetta ideata per ottenere un liquore dal Visner, preparato aggiungendo al vino di visciole, zucchero ed alcol.
Casciotta di Urbino Dop e altri marchigiani
Le Marche sono territorio di pastorizia d’antica tradizione, dove vedono la luce soprattutto formaggi di pecora.
Celebre simbolo della zona è la Casciotta, il cui nome deriva dall’antico termine “cascio”, variante linguistica territoriale del più diffuso “cacio”. La Casciotta d’Urbino è un formaggio dalle origini antiche. La storia riporta che veniva prodotto già ai tempi dei duchi di Montefeltro e Della Rovere che, dedicando particolare attenzione alla produzione casearia (come si evince dalle numerose norme delle “Costituzioni d’Urbino” che la riguardano), lo impiegarono come oggetto di commercio con Roma e con lo Stato della Chiesa. Le prime documentazioni scritte sull’utilizzo di questo formaggio fanno riferimento ai grandi convivi e banchetti di nozze dei nobili all’epoca del quindicesimo secolo. Nel 1545 nel “Commento alle Costituzioni del Ducato di Urbino” Solone di Compello segnala che i Duchi per la produzione della Casciotta incoraggiavano l’utilizzo del latte delle pecore locali, migliore di quello delle pecore maremmane, ma più scarso nei quantitativi; allo scopo i Duchi dimezzavano l’importo del pedaggio di transito delle pecore ai pascoli e le tasse sul trasporto del formaggio.
Anche Michelangelo Buonarroti lo apprezzava, soprattutto quello poco stagionato. L’artista per tutta la vita ebbe a che fare con la gente di Casteldurante. In particolare strinse legami molto profondi con Francesco Amatori (detto l’Urbino) e con la consorte di lui Cornelia Colonnelli, con cui ebbe un fitto rapporto epistolare accompagnato dall’invio di casciotte.
Ed ancora nel 1761 è il Cardinale Ganganelli, futuro Papa Clemente XIV, che da Roma ringrazia con una lettera l’Abate Antonio Tocci di Cagli per avergli inviato squisite casciotte.
La temperatura ideale di conservazione della Casciotta d’Urbino DOP è di 4-8 °C. Una volta riportata a temperatura ambiente, la Casciotta viene tradizionalmente consumata come formaggio da tavola, in abbinamento a salumi e pane di montagna. Può anche essere servita come piatto unico. Estremamente duttile in cucina, è impiegata come ingrediente nella preparazione di altre pietanze. A fine pasto, viene consumata in abbinamento con frutta caramellata o dolci. L’impiego della Casciotta d’Urbino in cucina ed a tavola sono determinati dal grado di maturità e quindi di sapore e morbidezza del formaggio: se particolarmente fresco, ad esempio, è più indicato nelle mantecature e nelle salse; se un po’ più consistente e mediamente maturo entra nelle farciture e nei ripieni. Agli antipasti ed ai primi delicati a base di Caciotta vengono generalmente abbinati vini leggeri, mentre a primi e secondi piatti dal sapore più deciso vini mediamente corposi. Come dessert, si sposa bene con vini dolci.
Nelle Marche oltre alla celebre Casciotta, vedono la luce anche altri pecorini: da quelli dei pascoli alti dei monti Sibillini, al pecorino di Monte Rinaldo ottenuto con caglio di agnello lattante, che prima di essere usato è fatto invecchiare alcuni mesi, e poi mischiato alle erbe del posto. Altri sapori misteriosi si sprigionano dall’area di Talamello dove il Formaggio di Fossa la fa da padrone per accompagnare paste in brodo, salse o confetture.
Prodotto solamente da latte vaccino intero è invece lo Slattato, formaggio fresco del quale si hanno testimonianze certe già nel ‘700, anche se è risaputo che alla corte dei Montefeltro i formaggi (tra i quali lo Slattato) venivano presentati nei banchetti e consigliati per sigillare lo stomaco.
L'unione di due elementi apparentemente inconciliabili, ovvero latte e limone, offre in questa regione il Cacio a forma di limone (o limoncello): formaggio a pasta fresca prodotto con latte ovino crudo, la cui crosta è ricoperta di scorza grattugiata di limone. Un Cacio Limoncello viene citato anche da Bartolomeo Scappi nella sua "Lista delle vivande" .
Infine ricordiamo che nelle Marche, per stagionare il formaggio, è molto praticato il tradizionale metodo di affinamento in botte, dove il prodotto viene immerso in strati alterni di foglie di noce e castagno, o coperto con le erbe aromatiche locali.
Conserve Marchigiane
La cultura contadina è ben radicata in questa regione collinare ricca di vigneti, oliveti e colture varie.
La gastronomia locale ha il profumo dell’aglio, del finocchietto, delle scorze d’arancio o di limone.
Con le olive si confezionano le rinomate ‘ascolane tenere’ in salamoia, mentre con le piante selvatiche si preparano sottolio, sottaceto e confetture. Finiscono in barattolo: cardi, carline, boccioli di calendula e di tarassaco, finocchio marino, germogli di pungitopo e fiori d’acacia.
Ma è nei preparati dolci che si trovano i nomi e le combinazioni più originali.
Dal sapore di festa è la lonzetta di fico, a forma di salama avvolta in foglie di fico legate con fili di lana, preparata con un composto di fichi essiccati, macinati e uniti a mistrà, rhum, semi di anice, noci e mandorle tritate; un tempo questa era una dolcezza natalizia, oggi accompagna formaggi di fossa e ricotte.
Emblemi delle tradizioni passate sono la marmellata di mele e radici di cicoria, la salsa di corniole e di prugnole, la paccuccia con mele e pere.
L’area del Verdicchio e Rosso Piceno
Si può ritenere che la coltura della vite fosse fiorente sulle pendici collinari marchigiane già prima della conquista Romana (268 a.C.). Allora la viticoltura era fra i settori portanti dell’economia agricola, tanto che prima Catone e po Varrone scrissero ammirati sulle elevate rese dei vigneti della sponda adriatica tra il Piceno e il Riminese. Plinio riportò nei suoi scritti che il vitigno “Hirtiola” oltre ad essere tipico dell’Umbria lo era anche del Piceno, e ciò proverebbe l’influenza Etrusca sulla viticoltura marchigiana. Lo stesso Plinio lodò i vini di Teramo e quelli di Ancona, questi ultimi definiti eccellenti e molto graditi per il loro sapore anche dallo storico Strabone. Con la caduta dell’Impero romano e l’invasione dei barbari, le notizie sulla viticoltura marchigiana diventano incerte. Da alcune fonti risulterebbe che il re dei Visigoti Alarico, per ritemprare le energie dei suoi combattenti, avrebbe portato con se “quaranta some in barili” di vino Verdicchio.
Rare sono le notizie nel Medioevo ma sembrerebbe che nell’area, per l’introduzione di nuovi vitigni e del miglioramento tecnico nella vinificazione, apparirono vini come l’Osimano, il Gaglioppo o Vernaccia. Pier de’ Crescenzi testimoniava che il Trebbiano era diffuso in tutta la regione e produceva vino nobile, dalle caratteristiche gradevoli e molto serbevole.
Nel ‘500 Pietro Aretino, in una lettera inviata al Sansovino, parla dei vini delle Marche e del Verdicchio, come la toccasana di tutti i mali. Alla fine dello stesso secolo il Bacci (d’origini marchigiane) difese la produzione della regione, segnalando gli eccellenti Moscato e Malvasia dell’ascolano, ma facendo un distinguo sugli altri vini prodotti. “Fiacchi, pingui e acquosi” quelli dei terreni di pianura del versante sinistro dell’Appennino; “sinceri” non abbisognevoli di alcuna manipolazione quelli provenienti dalle vigne sulle quali spirava l’aura marina. Infatti, a quei tempi per aumentare il grado zuccherino dei mosti, se ne praticava la cottura, che però peggiorava la qualità dei vini. Col passare dei secoli, il settore vitivinicolo dell’area si elevò sempre più in qualità e quantità, raggiungendo ai primi dell’Ottocento un quadro abbastanza vicino all’attuale. Il Verdicchio di Matelica fu il vino preferito dal pesarese Rossini (XIX sec.), e anche Giuseppe Garibaldi, nel 1849 in procinto di marciare alla volta di Roma, individuò in questo superbo nettare la capacità di infondere nei suoi volontari coraggio ed entusiasmo.
Oggi le Marche non sono solo Verdicchio dei Castelli di Iesi o di Matelica (dalla tipica bottiglia a forma d’anfora, il cui nome fa riferimento al colore dell’acino che anche maturo non perde i riflessi verdi). Qui si producono anche ottimi rossi, sia nella categoria dei vini da tavola che in quella delle DOC, come il Rosso Conero e il Rosso Piceno.
Fonte
TaccuiniStorici.it Testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.
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