domenica 30 ottobre 2011

La mia Senigallia

Ed ora vi ammorberò un po' , con un post lungo 1 km , tutto sulla mia città ! Contenti !!!

« La città di Sinigaglia da questa radice de' monti si discosta poco più che il tirare d'uno arco, e da la marina è distante meno d'uno miglio. A canto a questa corre un picciolo fiume, che le bagna quella parte delle mura che in verso Fano riguardano. La strada per tanto che propinqua a Sinigaglia arriva, viene per buono spazio di cammino lungo e monti, e giunta a el fiume che passa lungo Sinigaglia, si volta in su la man sinistra lungo la riva di quello; tanto che, andato per spazio d'una arcata, arriva a un ponte el quale passa quel fiume e quasi attesta con la porta ch'entra in Sinigaglia, non per retta linea ma transversalmente. Avanti a la porta è un borgo di case con una piazza, davanti alla quale l'argine del fiume da l'uno de' lati fa spalle. »
 ( Niccolò Machiavelli ) 
Senigallia o anche Sinigaglia (S'nigaja in gallico marchigiano), è un comune italiano di 45.106 abitanti[3] della provincia di Ancona nelle Marche, secondo della provincia per numero di abitanti dopo il capoluogo, nonché il sesto più popolato della regione.
È una delle principali località turistiche delle Marche, richiamante visitatori da ogni parte d'Italia e d'Europa, anche grazie alla famosa spiaggia detta "di velluto". Dal 1997 Senigallia si fregia ininterrottamente della Bandiera Blu, il riconoscimento che la FEE (Foundation for Environmental Education) rilascia alle località che garantiscono qualità delle acque di balneazione, attenzione alla gestione ambientale, informazione all'utente, servizi e sicurezza in spiaggia.
La zona di Senigallia costituisce il confine linguistico fra i dialetti gallo-italici e quelli italiani mediani

Breve storia di Senigallia

Il nome ricorda l'antica origine della città che la tradizione vuole fondata da un mitico "Brenno", condottiero dei Galli.
Prima colonia romana sull'Adriatico, Senigallia conosce momenti di grande fortuna e di profonda decadenza.
La sua rinascita certa è databile alla metà del XV secolo, quando Sigismondo Pandolfo Malatesti la fortifica e ripopola il suo territorio. Dopo la sua sconfitta ad opera di Federico da Montefeltro, la città viene data in vicariato ad Antonio Piccolomini dal papa Pio II e, in seguito ad alterne vicende, concessa da Sisto IV a suo nipote, Giovanni Della Rovere, destinato a sposare Giovanna, figlia di Federico da Montefeltro al quale il pontefice ha conferito, in quello stesso anno, il titolo di duca Giovanni, l'anno dopo, è anche nominato Prefetto di Roma e riceve in eredità dal cugino Leonardo il Ducato di Sora.
I ventisette anni del governo dei Della Rovere, che muore il 6 novembre 1501, segnano un periodo particolare nella storia di Senigallia: l'unico in cui la città è capitale di uno Stato che il "principe nuovo" crea nelle sue strutture fondamentali, dotandola di Statuti e di Catasti e ripensando l'assetto urbanistico, non solo con una più funzionale cinta muraria e con una più potente rocca, fulcro delle difese a mare, ma anche con lavori di bonifica della zona paludosa delle Saline, di arginatura del fiume Misa, con spazi verdi e "mattonando e saligando tutte le strade".
Giovanni ha a sua disposizione gli architetti di Federico da Montefeltro: Gentile Veterani progetta il rivellino; Luciano Laurana struttura il corpo centrale della Rocca nel quale ricava appartamenti che accolgano la corte in caso di emergenza ed effettua anche il collegamento con la piazza antistante; Baccio Pontelli realizza i quattro massicci torrioni che inglobano la parte residenziale.
Signore di una piccola corte, segnata dall'austerità dei costumi e da una profonda religiosità, fa progettare da Baccio Pontelli per Senigallia il Convento e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Egli non vedrà la fine dei lavori della complessa struttura, iniziata nel 1491, certamente destinata ad essere la tomba di famiglia e, forse, edificata per sciogliere il voto fatto alla Madonna e a San Francesco per ottenere la grazia di un figlio maschio. Francesco Maria nasce nel 1490 e, per l'estinzione della casata dei Montefeltro, diventa duca di Urbino nel 1508, primo della dinastia roveresca destinata a durare fino al 1631.
Città ricca, continua la sua espansione dotandosi, nel XVI e nel XVII secolo, di altri monumenti tra i quali: il Palazzo comunale, il Palazzo del Duca, la Chiesa della Croce, ove è conservata la Deposizione di Federico Barocci, mentre dello stesso periodo è la bellissima Visita a Sant'Anna del Guercino, conservata nella Chiesa di San Martino. In età pontificia si trasforma da città-stato a città-mercato, anche nelle strutture architettoniche: i Portici sul lungofiume sostituiscono le potenti mura volute da Guidobaldo II a metà del XVI secolo. Quattordici consolati esteri proteggono gli interessi dei mercanti che accorrono nei giorni della celebre Fiera franca della Maddalena, mentre nel XIX secolo essere patria del papa Pio IX consente alla città di Senigallia di vivere ancora da protagonista nella storia.
Nei primi decenni del '900 si afferma l'immagine di Senigallia come sede privilegiata del nascente turismo balneare. Un monumento celebrò in modo splendido questa vocazione della città, la Rotonda a Mare inaugurata nel 1933.

La Cucina

Un giovane letterato e gastronomo, scrivendo su un quotidiano nazionale, ha citato Senigallia “ fra le capitali della ristorazione italiana ”.
Fra i cento e più locali cittadini, almeno una quarantina compaiono nelle più note guide all’ospitalità. Il segreto di tanto successo, grazie anche ad una scuola alberghiera di chiara fama e indubbio prestigio, si deve a un’offerta che risponde alle richieste di tutti i tipi di pubblico.
Infatti, dalla pizzeria al bistrot, dal ristorantino sul mare alle più formali tavole d’albergo, dalle allegre enoteche alle osterie del buon tempo antico, non c’è che l’imbarazzo della scelta.


Il gourmet trova delizie inedite, alla famiglia non mancano i menù gustosi ed economici, il pesce è fresco ed invitante ma chi non lo ama può gustare i buoni cibi di campagna.
I cuochi di Senigallia possono contare soprattutto su alimenti sempre freschi e sanno rispettare le tradizioni, ma le coniugano con sapienti e moderne interpretazioni.

Città di mare , trova le sue radici gastronomiche nel pescato quotidiano dell’Adriatico: alici, sardine, sgombri, suri, triglie, moscardini, seppie, sogliole, pannocchie, cefali, vongole, cozze. La grigliata e il fritto misto dell’Adriatico sono i due piatti di tradizione marinara sempre presenti sulla tavola senigalliese. La grigliata deve essere rigorosamente “sa la mollica”, ovverosia con pane grattugiato insaporito con aglio e prezzemolo fresco. Nel fritto misto non possono mai mancare le zanchette, i guattoli, la parazzola. Sontuoso e ormai abbastanza raro da trovare il brodetto senigalliese . La vera ricetta dei “portolotti” prevede l’utilizzo di 13 diversi tipi di pesce, lentamente cucinati con soffritto di cipolla, pomodoro (meglio il concentrato di pomodoro), aceto. Il brodetto è ormai presente in pochi ristoranti e, comunque, sempre su prenotazione.
Sia la grigliata che il fritto misto dell’Adriatico non possono che non essere accompagnati dai “bianchi” delle colline prospicienti Senigallia: il Verdicchio dei Castelli di Jesi e il Bianchello del Metauro .
Saporita e naturale la “cucina di terra”. Tra i piatti della tradizione contadina, in estate è una vera sorpresa scoprire l’ oca arrosto e, per il pranzo di Natale, la salsiccia matta , ormai prodotta su ordinazione solamente da alcune macellerie del centro storico. A Senigallia è possibile apprezzare anche una gustosissima porchetta lentamente cotta al forno a legna e insaporita con finocchio selvatico. Per la porchetta si raccomanda un buon bicchiere di Lacrima di Morro d’Alba , il rosso delle nostre colline, mentre per gli arrosti di carne il vino consigliato è il Rosso Conero , un prezioso Montepulciano impregnato con la salsedine dell’Adriatico.
E’ tipica della tradizione senigalliese la pizza con il formaggio che, in passato, veniva preparata per le festività pasquali. E’ il trionfo del formaggio pecorino: grattugiato quello secco, a pezzetti quello fresco.
Il dolce della tradizione, a tavola, è il ciambellone . A Natale è abitudine accompagnare questo dolce con il vino di visciole , una bevanda dolce preparata con visciole macerate in zucchero e vino rosso (generalmente Sangiovese). Durante il periodo della vendemmia tutti i forni della città preparano le ciambelle con il mosto , profumate all’anice.
Senigallia ha anche una lunga tradizione olearia. Le colline prospicienti il mare sono infatti particolarmente vocate per la coltivazione dell’ulivo, da cui si ricava un apprezzatissimo olio monovarietale Raggia proposto da diversi piccoli produttori locali.
Negli ultimi anni si è dato avvio ad un importante progetto di valorizzazione del salame di Frattula , un prodotto di filiera con un rigido disciplinare che prevede esclusivamente l’utilizzo di suini allevati all’aperto su una ristretta area a nord della provincia di Ancona, comprendente anche una porzione del comune di Senigallia (Scapezzano e Roncitelli).
Senigallia riserva un’attenzione particolare anche alla filiera del pane, dalla semina fino alla sua produzione e commercializzazione. Il “ Pangallo ” è una importante esperienza di valorizzazione della filiera locale. Prodotto con grani coltivati a Senigallia e in Comuni limitrofi e lavorato in molini a pietra ancora attivi nel nostro territorio, il “Pangallo” viene prodotto artigianalmente da fornai di Senigallia e distribuito in diversi punti vendita della città. Un esempio virtuoso che premia il lavoro svolto da quanti hanno creduto su “ Pane Nostrum ”, la più importante manifestazione italiana di valorizzazione del pane che si svolge - ogni anno – nel terzo week-end di settembre.
Da oltre venti anni opera a Senigallia la cooperativa “ La Terra e Cielo ”, una delle più importanti realtà nazionali nel settore dell’agricoltura biologica. Sono famose anche all’estero le premiatissime paste realizzate con il grano duro a coltivazione biologica delle colline senigalliesi.

RICETTE MODERNE SENIGALLIESI

Purea di patate con amatriciana e sgombro grigliato

Ingredienti
Sgombri da 300 g. n. 2
Patate 1 Kg.
Latte 200 g.
Burro 50 g.
Parmigiano/pecorino grat. 30 g.
Guanciola 40 g.
Cipolla bianca n. 2
Peperoncino
Olio extra vergine d’oliva q.b.
Sale e pepe di mulinello
Pelati 400 g.
Erbe aromatiche

Procedimento
- privare gli sgombri del loro interiore, togliere le lische, sciacquarli e farli scolare. Metterli in un contenitore capace a marinare con aneto e maggiorana ed un filo di olio extra vergine.
- mettere a bollire in acqua le patate di egual misura per il purea di patate.
- tagliare la cipolla ad anelli sottili, tagliare la guanciola in julienne. Procedere nella salsa amatriciana tostando la cipolla in una padella con olio e peperoncino, aggiungere la pancetta tagliata, cuocerla fino a renderla croccante, aggiungere i pelati, cuocere aggiustando di sale e pepe.
- sbucciare le patate precedentemente cotte, passarle al passaverdure, mantecarle con latte, burro e formaggio grattugiato. Mantenere in caldo a bagnomaria. 
-  cuocere lo sgombro alla griglia dalla parte interna per pochi minuti aggiustando il sapore.
- mettere nel piatto una base di purea lavorato con il sac a poche, mettere la salsa amatriciana caldissima e sopra appoggiarci lo sgombro. Servire caldo con un filo di olio extra vergine e del pepe di mulinello.

Gnocchi di patate con ragù azzurro

Ingredienti per il ragù
olio extravergine di oliva 60 g
cipolla tritata 10 g
aglio 1 spicchio
peperoncino n. 1
prezzemolo tritato
1 rametto di timo
pendolini rossi tagliati a pezzetti 150 g.
acciughe fresche tagliate a cubetti 50 g.
sgombro fresco tagliato a cubetti 50 g.
palamite tagliato a cubetti 30 g.
cefalo tagliato a cubetti 30 g.
Per gli gnocchi
patate 300 g.
burro 50 g.
parmigiano 10 g.
farina 100 g.
sale q.b.
un profumo di noce moscata
un tuorlo d’uovo

Procedimento
- Cuocere le patate, farle raffreddare e sbucciarle.
- Spremerle con l’apposito strumento.
- Incorporare la farina, le uova, il burro, il sale e la noce moscata.
- Ricavare delle codine e poi gli gnocchi.
- Insaporire i pesci con sale, pepe, prezzemolo e timo.
- Far rosolare la cipolla con l’aglio e il peperoncino.
- Aggiungere i pendolini e regolare il sapore.
- Cuocere gli gnocchi in abbondante acqua salata.
- Scolarli, passarli in padella, aggiungere la salsa e i pesci conditi, fateli saltare per un minuto circa e servite in un piatto fondo con una guarnizione di timo.

Albanella con Pesce Azzurro e Molluschi

Ingredienti
10 alici
2 sgombri piccoli
200 g di calamari
1 mugella
2 triglie
4 raguse
3 pomodori freschi
100 g di brodo di pesce
200 g di acqua delle vongole
4 fette di pane tostato
50 g di aceto
prezzemolo
timo
fi nocchio
aglio e cipolla
1/2 bicchiere di Verdicchio
olio extravergine di oliva q.b.
sale e pepe di mulinello
peperoncino
4 vasetti in vetro (albanella)

Procedimento
Pulire il pesce, fi lettare e diliscare i diversi pesci. Bollire le raguse per 20 minuti in acqua acidulata. Cubettare i pomodori, tagliare la cipolla ad anelli. Con le lische dei pesci ricavarne un brodo. Far dorare la cipolla con olio e uno spicchio d’aglio con del peperoncino. Aggiungere i calamari puliti e tagliati con prezzemolo tritato, far cuocere per alcuni minuti. Bagnare con vino e far evaporare, aggiungere acqua delle vongole, aggiustare di sale ed aggiungere del brodo di pesce. Cuocere il resto del pesce per pochi minuti in padella con olio aggiustandoli di sapore. Le raguse bollite (circa 30 minuti) poi condite con sale e pepe. Mettere i pesci con la salsa leggermente emulsionata con dell’olio d’oliva nei contenitori in vetro distribuendola accuratamente, aggiungere dei pomodorini tagliati in 2 parti un po’ di peperoncino, un rametto di timo e fi nocchio selvatico. Chiudere e riscaldare a bagno maria con un panno per evitare che il vetro sia a contatto con il metallo e partendo da acqua fredda (circa 10 minuti di bollore). Servire con un tovagliolo sul piatto per evitare che sia a contatto con la ceramica. Scuotere l’albanella prima di gustarla. Accompagnare con un crostino di pane e un fi lo di olio extravergine al momento dell’apertura del vaso.


Centro della fotografia

E’ con Giuseppe Cavalli , uno dei grandi della fotografia del ‘900 nonché ideatore e direttore artistico di quel privilegiato laboratorio di formazione fotografica che è stato il Gruppo Misa , che nacque la particolare vocazione di Senigallia per la fotografia.
E’ attraverso il suo insegnamento che si formò, a partire dal 1953, una giovane ed appassionata generazione di artisti senigalliesi che concepiva la fotografia come una creazione, attingendo alle sue forme ed ai suoi colori per esprimere il proprio universo poetico.
Giovani talenti come Ferruccio Ferroni e Mario Giacomelli si affermarono all’interno del Gruppo Misa.
In quel gruppo – ricordava spesso Mario Giacomelli – ognuno parlava il proprio linguaggio, con umiltà di fronte al soggetto, liberi da ideologie politiche, pensando all’amicizia, al dialogo, al rispetto di ognuno di fronte alla realtà.
Senigallia città della fotografia rappresenta un’idea forte della politica culturale che l’Amministrazione Comunale ha cercato di sviluppare in questi ultimi anni. Un progetto che si sta attuando attraverso tre filoni principali di interventi. In primo luogo si è lavorato per sviluppare la potenzialità di Senigallia ad ospitare mostre dei grandi maestri della fotografia italiana ed internazionale, in grado di richiamare un pubblico di appassionati. Un altro obiettivo verso il quale si lavora è quello di attirare e promuovere talenti fotografici, riservando la massima attenzione verso tutto ciò che di nuovo si muove nel panorama artistico nazionale ed internazionale; e poi naturalmente c’è la grande eredità artistica e culturale di Mario Giacomelli. Attraverso le esposizioni delle sue foto nelle principali città del mondo (il 2007 è l’anno del grande tour americano della civica collezione Giacomelli con esposizioni a Los Angeles, Chicago e New York ) riusciamo non soltanto a valorizzare l’opera di uno dei maestri della fotografia di tutti i tempi, ma anche a veicolare l’immagine di Senigallia nel mondo.

La città di Giacomelli

Mario Giacomelli , scomparso a Senigallia il 25 novembre 2000, è considerato da parte di numerosi critici, il più grande fotografo italiano della seconda metà del ‘900. Le sue opere sono conservate nei musei di tutto il mondo.
Nato a Senigallia nel 1925, la sua infanzia è subito segnata dalla perdita prematura del padre avvenuta quando lui aveva appena nove anni. Alla fotografia si avvicina nel 1952 dopo una serie di esperienze da autodidatta in pittura e poesia e due anni dopo entra a far parte dell’Associazione senigalliese “Misa”. Nel 1963 una sua fotografia, della serie Scanno, venne selezionata per la collezione del Museo d’Arte Moderna di New York , coronando il lavoro di rottura degli schemi tradizionali iniziato da Mario Giacomelli nell’immediato dopoguerra. Mario Giacomelli era senigalliese e marchigiano fino in fondo, legato alla sua città, ai suoi ritmi, alle sue tradizioni.
Anche nella sua espressione artistica egli si lega alla sua terra, e lo fa con i paesaggi segnati dall’uomo, con pieghe come rughe che l’uomo ha nelle sue mani, paesaggi che parlano di volti e di cose che abitano nell’anima.
La fotografia per Giacomelli era soprattutto amore, l’immagine che racconta una poesia dell’anima che continua ancora a stupirci e a commuoverci.

Rarissima immagine di senigallia con la neve















































lunedì 24 ottobre 2011

Halloweennnnnnnnnnnnn


Breve storia

L'Irlanda è la patria originaria di Halloween, anche se generalmente viene conosciuta come una tradizione americana.
Questa festa risale ai tempi dei Celti. Essi infatti celebravano il 31 ottobre l'ultimo giorno dell'estate e la ricorrenza dei morti. Questo giorno veniva chiamato Samhain in quanto la notte del 31 ottobre e tutto il giorno del 1° novembre i druidi, loro sacerdoti, onoravano Samhain, signore delle tenebre. Una leggenda narra che tutte le persone morte l'anno precedente tornassero sulla terra per cercare di rientrare nei corpi dei vivi. Nei villaggi si spegnava ogni focolare per evitare che gli spiriti maligni vi soggiornassero mentre i druidi si incontravano sulla cima di una collina sotto una quercia per accendere il nuovo fuoco offrendo sacrifici propiziatori di sementi e animali.
Dopo i sacrifici si festeggiava per 3 giorni, dal 31 ottobre al 2 novembre, e ci si mascherava con le pelli degli animali uccisi per ingannare gli spiriti: così mascherati i druidi ritornavano al villaggio illuminando il loro cammino con lanterne costituite da cipolle intagliate al cui interno erano poste le braci del fuoco sacro.
I Romani quando invasero la Britannia (43 a.C.) onoravano negli stessi giorni Pomona, dea dei frutti e dei giardini, offrendole frutti (soprattutto mele) per propiziare la fertilità futura. Col passare degli anni il culto di Samhain e di Pomona si unificarono, l'usanza dei sacrifici fu abbandonata, e al suo posto si bruciavano effigi. La pratica di mascherarsi da fantasmi, streghe e di offrire dolci divenne parte del cerimoniale.
Dopo l'invasione dei Romani i riti Cristiani sostituirono quelli pagani. I Cristiani festeggiavano il 1° novembre il giorno dei Santi, All Allows day.
La notte del 31 ottobre era All Allows Eve da qui dunque il nome di Halloween.
Gli immigrati irlandesi portarono questa festa in America nel XIX secolo e sostituirono l'originale rapa con le zucche, più facili da reperire e più semplici da intagliare, per fare le lanterne. È da qui che la zucca divenne una parte essenziale di questa festa.
Con il passare dei secoli, ciò che maggiormente è rimasto dell’originario spirito di Halloween è l'aspetto lugubre dell'aldilà, con i fantasmi, i morti che si levano dalle tombe, le anime perdute che tormentano chi in vita aveva arrecato loro danno. Un aspetto che tuttavia viene esorcizzato dalle maschere e dagli scherzi caratteristici di questa festa.

Piccolo menù

Palline fritte di zucca

Ingredienti per 6 persone

300 gr di polpa di zucca
160 gr di farina
5 uova intere
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
un pizzico di noce moscata
un amaretto
lievito in polvere
sale q.b.

Procedimento
Cuocete la zucca a vapore e, quando tenera al tatto, passatela al passaverdure e lasciatela intiepidire.
In una ciotola amalgamate la purea di zucca con
l' uovo, i 2 tuorli, il parmigiano, la farina, l'amaretto sbriciolato, la noce moscata e mezza bustina di lievito. Mescolate bene e, per ultimi, aggiungete i 2 albumi montati a neve ben ferma con un pizzico di sale.
Riscaldate l'olio, circa 1 litro, nella apposita casseruola dei fritti fornita di cestello. Quando è ben caldo ma non bollente prendete con un cucchiaio un po' dell' impasto di zucca e, aiutandovi con un altro cucchiaio, fate cadere la pallina nell'olio. Fate friggere poche palline per volta fino a quando risulteranno belle dorate. Scolatele su della carta assorbente e servite subito.

Ravioli di zucca

Ingredienti per 4 persone

Per la pasta:
300 g di farina
3 uova
Per il ripieno:
500 g di zucca
80 g di amaretti
80 g di grana padano
80 g di mostarda di mele
noce moscata
sale e pepe q.b.

Procedimento
Preparate una pasta fine con la farina, le uova e dopo averla lavorata a lungo (con l’impastatrice il lavoro diventa facile e veloce) lasciatela riposare per 30 minuti.
Preparate nel frattempo il ripieno cuocendo la zucca a forno moderato per circa 30 minuti. Fatela raffreddare, passatela al setaccio e raccoglietela in una terrina. Mescolatela con gli amaretti sbriciolati, la mostarda sminuzzata, il grana padano, il sale, il pepe e la noce moscata. Lavorate bene il composto in quanto deve risultare ben asciutto.
Con l'aiuto del mattarello o meglio ancora con l' aiuto della stirasfoglia stendete 4 sfoglie sottili; mentre preparate una sfoglia tenete l'altra pasta coperta con un canovaccio umido in modo che rimanga abbastanza morbida e non si asciughi. Ricavate dal ripieno tante palline grandi come una nocciola e sistematele sulla sfoglia distanziate tra di loro. Ricoprite con l'altra sfoglia premendo bene fra un ripieno e l'altro, quindi con la rotellina dentata ricavate i ravioli di forma quadrata. Man mano che sono pronti, disponeteli su un piano infarinato coprendoli con un canovaccio. Lessate i ravioli in abbondante acqua salata per 5 minuti, scolateli con la schiumarola, metteteli in una ciotola e conditeli con burro fuso e grana padano grattugiato.

Sformatini di zucca

Ingredienti per 6 persone

600 g di zucca lessata
70 g di parmigiano grattugiato
4 uova intere
200 ml di latte
300 ml di panna
sale e pepe q.b.
noce moscata
burro

Procedimento
Schiacciate la zucca in modo da ottenere una purea ben asciutta, mescolatela alle uova sbattute con il latte, con la panna e aggiungetevi il parmigiano, il sale, abbondante pepe e noce moscata. Imburrate bene delle formine di alluminio, versate in ognuna un po' di crema di zucca: deve riempirle per 3/4.
Fate cuocere per circa 30 minuti a bagnomaria il tempo necessario a che gli sformatini si rassodino bene. Fateli raffreddare per qualche minuto prima di sformarli. Serviteli ben caldi e, se lo desiderate, bagnateli con un filo d'olio aromatizzato col basilico.

Fonte
mangiare bene.com

venerdì 21 ottobre 2011

Cibo e Libri

Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo
Massimo Montanari
Laterza editore

Già il titolo è davvero accattivante, poi la sua copertina colorata con tutti quei begli attrezzi uno affianco all’altro è una vera tentazione per gli amanti della cucina. Ma la decisione immediata e compulsiva di acquistarlo si materializza girandolo e leggendo il retro di copertina che riporta una frase dell'autore profondamente vera:
"La cucina non è solo il luogo in cui si progettano sopravvivenza e piacere. La cucina è anche il luogo ideale per allenare la mente"
L'autore è un professore universitario di storia medioevale e cultura dell'alimentazione che in questo libro con uno stile fresco e scorrevole racconta storie antiche e moderne intorno al cibo. Scorrendo queste pagine si impara come quasi tutti gli alimenti che normalmente usiamo nelle nostre cucine hanno una storia da raccontarci, ma che spesso ignoriamo. Così per esempio si scopre che l'abbinamento prosciutto e melone, nasce nel medioevo a causa dei principi ippocratici e galenici in voga al tempo per cui i cibi freddi ed umidi come la frutta si credeva fossero pericolosi per la salute, e quindi andavano bilanciati da cibi caldi e secchi. Il melone umido e fresco per eccellenza ritenuto pericolosissimo per la salute (gli è stato imputato anche la morte di un Papa) veniva quindi accompagnato dal prosciutto, cibo caldo e non umido. Per lo stesso motivo nascono altri abbinamenti golosi e classici quali pere e formaggio o l'abitudine che spesso abbiamo a fine pasto di "affogare" le pesche in due dita di vino rosso.
Il libro è pieno di interessanti riflessioni su come il cibo abbia un piano non secondario nella storia dell'uomo e di come riflette, ed a volte anche influenza, la società (la carne cibo di aristocratici si suddivide, la minestra cibo democratico dei ceti poveri, si condivide).
Chiunque leggerà questo libro non si domanderà più preparando i tortellini ricotta e spinaci perchè si chiamano "di magro" e sicuramente avrà un occhio di riguardo in più nel preparare una macedonia di pesche.

Francesca Pazienza

Fonte
mangiare bene.com

giovedì 20 ottobre 2011

Un buon dolce autunnale


Creme Bruleé alla zucca

Ingredienti per 4 persone

6 Tuorli D'uovo
50 Cl di Panna Fresca
250 g di Zucchero Di Canna
500 g di Zucca Lessata
Noce Moscata
Cannella
Sale

Ricetta
Passare la zucca al setaccio. Battere i tuorli con metà zucchero poi unire la panna, 2 cucchiaini di cannella, poca noce moscata, la zucca e una presa di sale Dividere la crema in 6 pirofiline e infornare a 180 gradi per 30 minuti. Levare dal forno e far raffreddare in frigo almeno 3 ore. Prima di servire spolverizzare con lo zucchero rimasto e passare sotto il grill del forno per farlo caramellare. Servire subito.

lunedì 17 ottobre 2011

Ottobre , tempo di .....Tartufi bianchi...

Insalata Di Tartufi Bianchi E Ovoli Reali

Ingredienti per 5 persone

500 g Funghi Ovoli Reali
50 g Tartufi Bianchi
2 Uova
2 Limoni , 100 g Olio D'oliva Extra-vergine
                                          Sale , Pepe
Preparazione

Liberare gli ovoli della pellicola bianca e affettarli finemente. Assodare le uova, lasciarle raffreddare, sgusciarle e separare i tuorli dagli albumi, tritare i tuorli con una forchetta, deporli in una terrina, aggiungere il succo dei limoni, l'olio, il sale ed il pepe, ottenere una salsa frullando a mano tutti gli ingredienti. Mettere gli ovoli affettati in un piatto di portata, ricoprire
con fettine di tartufo bianco e condire con la salsa appena preparata.

venerdì 14 ottobre 2011

Omaggio alla mia terra

LE MARCHE

Quella della Marche è una confederazione di cucine. Posta al centro della penisola, s’identifica con l’antico territorio Piceno (IX – IV sec. a.C.), presentando ancor oggi una pluralità di dialetti, consuetudini e folclore. Gli usi gastronomici del Pesarese e del Montefeltro sono strettamente imparentati con quelli della confinante Romagna (minestre), così pure i piatti dell’ultimo lembo meridionale sono largamente influenzati da quelli dell’Abruzzo. Due sono gli aspetti della cucina locale corrispondenti alle caratteristiche geografiche della regione: quello dell'entroterra e quello marittimo.
L'aspetto contadino della cucina marchigiana è dominato dai funghi, dall'uso delle olive e dal tartufo. Quest'ultimo è il condimento sublime dei taglierini di fattura casalinga, proveniente dalle località del Pesarese, dell’Ascolano e del Maceratese, oggi garantisce un’importante risorsa integrativa all’economia rurale grazie al mercato di Acqualagna, dove si concentra un terzo dell’intera produzione annuale italiana. La gastronomia delle Marche, che possiede un vero e proprio gusto nel campo dei cibi imbottiti, ha una delle pietanze più rappresentative nelle olive all'ascolana, il cui cultivar era già apprezzato dai Romani.
I piatti forti dell’entroterra sono a base di carne di maiale, tra i quali spiccano la saporitissima porchetta, e il cotechino della fortezza di San Leo, che si dice mangiò anche Cagliostro quando vi finì rinchiuso.
Sulla costa delle Marche invece si può gustare una grande quantità di prodotti ittici. Piatto simbolo è il “brodetto di pesce”, interpretato diversamente in ogni porto, dal rosso (pomodoro) del Pesarese al giallo (zafferano) dell’Ascolano. In uso tra il fiume Conca (confine Romagna) e il Tronto (prima degli Abruzzi) c’è un il “potacchio”, derivante dal francese “potage”, che in quest’area non designa una zuppa bensì un intingolo ristretto maritato a stoccafisso, pollo o coniglio.
La cucina Anconetana e quella Maceratese esprimono il piatto unificante la regione: i vincisgrassi. ( Vedere post precedente )

Maccheroncini di Campofilone e gli altri marchigiani

Le Marche sono una regione dalle molte tradizioni e la pasta fatta in casa ha grande rilievo. A Pesaro e nel Montefeltro troviamo i “cappelletti”, tradizionale piatto dei giorni di festa, simili all’omonimo formato romagnolo ma riempiti di carne bovina, suina, cappone e tacchina. Non mancano poi tagliatelle, tagliolini, pappardelle, maltagliati, fatti di tutte le misure e tutti gli spessori per adattarsi al meglio all’incontro con i diversi condimenti, dai sughi preparati con il pesce fresco fino al tartufo.
Inoltrandosi nel territorio del Montefeltro troviamo i “passatelli” (serviti in brodo o asciutti) e le “millefoglie”, grossi quadrati di sfoglia all’uovo utilizzati prevalentemente nei pasticci al forno.
La tradizione rustica si sente ancora nelle “cresc’ tajat”, ruvidi quadrelli di sfoglia a base di farina di mais, ottimi con fagioli, ceci e fave.
La pasta senza l’uovo, tagliata lunga a sezione quadrata o rettangolare si manifesta nei “tajuli pilusi” (tagliolini pelosi), cosi indicati per il velo superficiale che si forma dopo la cottura, causato della scarsa coesione dell’impasto.
Anche la pasta di produzione industriale trova nelle Marche grande attenzione: accanto ad aziende prestigiose troviamo realtà più piccole ma altamente qualificate, come i numerosi pastifici che producono pasta al farro, cereale la cui coltivazione è molto diffusa nella regione.
Per finire segnaliamo i due tipi di pasta più noti: i “vincisgrassi” (ricchissimo pasticcio), e i lunghi e sottilissimi “maccheroncini di Campofilone”. Questi ultimi, tagliati con coltelli affilatissimi e noti fin dal ‘400 come “maccheroncini fini fini”, dopo la cottura hanno un’elevata porosità perchè preparati con molte uova (dieci per un kg semola grano duro), risultando così ottimi sia in brodo che asciutti.

Salumi marchigiani

Tra i vecchi dei paesi dell’entroterra marchigiano è ancora vivo il ricordo della “pista” (macellazione del suino), autentico rito sacrificale collettivo, che si svolgeva nelle campagne, durante il quale del maiale non si buttava via niente.
In questa terra collinare ammantate di vitigni, colture e oliveti, l’arte del salume ha preservato un forte legame con la radicata cultura contadina.
Accanto alla produzione del Prosciutto di Carpegna, del Salame di Fabriano, della Soppressata di Fabriano, e della Lonza (collo maiale disossato), nelle Marche è diffusa una lavorazione artigianale che talvolta è finalizzata al solo autoconsumo.
Segnaliamo il Ciarimbolo (di forma nastriforme, fatto con le budella del suino bollite, condite e asciugate lentamente al fuoco), i Ciauscoli o Ciauvuscoli (dal latino “cibusculum” piccolo cibo prezioso, crema di salame da spalmare), il Mezzofegato (salsiccia matta preparata con scarti della lavorazione del maiale), la Salsiccia di fegato e la Spalletta.
I salumi marchigiani sprigionano le inconfondibili note dell’aglio e del finocchio, aromi rintracciabili anche nei sughi, nei ragù, nei ripieni e nelle carni in porchetta della tradizione gastronomica locale.

Crescia , filone e gli altri marchigiani

Le Marche sono una terra dove i pani, le focacce e i dolci lievitati creano le mille facce di una gastronomia che ha saputo utilizzare l'abbondanza di frumento. Ogni paese lo ha fatto a modo suo, sfruttando astutamente materie prime di volta in volta differenti, creando feste popolari e riti collettivi.
Già granaio dei latini, fertile produttrice di farro e successivamente di mais, questa regione trasforma ogni occasione in un momento di arte bianca: la vendemmia nei pani al mosto; la raccolta delle noci nel pan nociato; le festività religiose nei pani di Pasqua; la raccolta del grano nel pan dei mietitori.
-Crescia sfogliata di Urbino;
- Crescia maceratese : ha vari nomi gergali, ma è spesso chiamata pizza bianca. Originariamente veniva fatta una o due volte a settimana con l’impasto avanzato dalla preparazione del pane. In genere rotonda, presenta piccola infossature sulla superficie dovute alla pressione delle dita, che hanno la funzione di trattenere meglio l’olio. La crescia è condita comunemente con sale e olio, e a volte con rosmarino e cipolle. Varianti molto apprezzate: la crescia di granturco, la crescia con gli sgriscioli (ciccioli di maiale), e la la “caccia ‘nnanza (estrai prima), versione ascolana, che veniva cotta nel forno a legna prima dei filoni di pane, per verificarne la temperatura;
- Crostolo del Montefeltro : tipico dell’alto Montefeltro simile solo esteriormente alla piadina romagnola, e a gran parte delle focaccia di forma rotonda dell’area mediterranea, di origine rituale e simboleggianti il disco solare. L’impasto, cotto su una piastra d’argilla, si compone di farina di grano tenero, uova, sale, pepe, strutto, acqua, latte, bicarbonato e talvolta siero della lavorazione del formaggio. Un’antica sua variante, il crostolo di Urbania, viene ricavato dalla polenta che resta attaccata alle pareti del caldaio.
- Filone casereccio : rappresenta il simbolo della tradizione panificatoria di qualità delle Marche. Il peso d’ogni pezzo è di circa un chilo, la crosta dorata e la mollica spugnosa con alveoli distribuiti uniformemente.
- Filone integrale : la versione integrale del filone casereccio realizzata con farina ricca di crusca.
- Focaccia farcita : tipica delle aree interne ascolane, cotta il giorno precedente al suo consumo e ripassata in padella col lardo, è la versione “ricca” del classico pasto del contadino. Fatta con due sfoglie imbottite di verdure precedentemente lessate (erbe campo o altro a seconda della stagione). Sua variante più diffusa è il “chichì ripieno” (termine infantile per connotare una pizza), focaccia molto sottile arricchita da un po’ di strutto, e ripiena di alici, tonno, carciofi e olive verdi, sembra di origine ottomana o quantomeno molto somigliante al “lahmagiun” armeno.
- Pane di Chiaserna : dalle notevoli qualità organolettiche dovute alla favorevolissima posizione geografica e al clima temperato. Di lunga lavorazione, dal sapore leggermente acidulo, è un pane disponibile in pezzature da un chilo o cinquecento grammi, con mollica spugnosa dal colore bianco tendente al grigio e alveolatura regolare.
- Pane di farro : cereale di antichissima tradizione, uno dei simboli della civiltà dei Piceni, che lo utilizzavano nel rituale della “confarratio” (nome derivato dal cereale), scambio simbolico di un omaggio tra le famiglie dei promessi sposi. Il pane di farro, dal colore piuttosto scuro, e il pane di grano, hanno in comune la tecnica della loro preparazione.

Anicetti , Bostrengo e Visner

La dolciaria marchigiana presenta due elementi distintivi: l’anice e i fichi. L’anice, raccolta sui Monti Sibillini, viene utilizzata soprattutto per la preparazione dei celebri liquori che danno l’aroma a vari dolci fra i quali gli Anicetti (biscottini) e il Ciambellone.
I fichi sono l’ingrediente rilevante nell’impasto dell’arcaico Fristingo (assieme al miele e alla frutta secca), del caratteristico Torrone, o dell’insaccato dolce detto “Lonzino” (fatto con anice, rum, mandorle e noci).
Fra le “dolcezze” delle Marche, c’è anche da segnalare: il “Bostrengo”, il Visner, e gli Scroccafusi (dolcetti di carnevale).
Il Bustrengo (o bustrengo) è il dolce delle occasioni speciali, tipico delle zone montane, soprannominato “pulisci credenza” per la sua ricetta variabile basata su riso e farina di castagne.
Il Visner è una bevanda, sembra già prediletta da Federico da Montefeltro, chiamata anche vino di visciole (amarene). Veniva fatta dai contadini, cogliendo a fine giugno le visciole dalle piante selvatiche e mettendole a macerare nel vino. La sua delizia nasceva dal sovrapporsi del sapore del frutto alla trama del vino, e dall’intrecciarsi del dolce con l’amaro e l’acidulo. D’origine casalinga anche la ricetta ideata per ottenere un liquore dal Visner, preparato aggiungendo al vino di visciole, zucchero ed alcol.

Casciotta di Urbino Dop e altri marchigiani

Le Marche sono territorio di pastorizia d’antica tradizione, dove vedono la luce soprattutto formaggi di pecora.
Celebre simbolo della zona è la Casciotta, il cui nome deriva dall’antico termine “cascio”, variante linguistica territoriale del più diffuso “cacio”. La Casciotta d’Urbino è un formaggio dalle origini antiche. La storia riporta che veniva prodotto già ai tempi dei duchi di Montefeltro e Della Rovere che, dedicando particolare attenzione alla produzione casearia (come si evince dalle numerose norme delle “Costituzioni d’Urbino” che la riguardano), lo impiegarono come oggetto di commercio con Roma e con lo Stato della Chiesa. Le prime documentazioni scritte sull’utilizzo di questo formaggio fanno riferimento ai grandi convivi e banchetti di nozze dei nobili all’epoca del quindicesimo secolo. Nel 1545 nel “Commento alle Costituzioni del Ducato di Urbino” Solone di Compello segnala che i Duchi per la produzione della Casciotta incoraggiavano l’utilizzo del latte delle pecore locali, migliore di quello delle pecore maremmane, ma più scarso nei quantitativi; allo scopo i Duchi dimezzavano l’importo del pedaggio di transito delle pecore ai pascoli e le tasse sul trasporto del formaggio.
Anche Michelangelo Buonarroti lo apprezzava, soprattutto quello poco stagionato. L’artista per tutta la vita ebbe a che fare con la gente di Casteldurante. In particolare strinse legami molto profondi con Francesco Amatori (detto l’Urbino) e con la consorte di lui Cornelia Colonnelli, con cui ebbe un fitto rapporto epistolare accompagnato dall’invio di casciotte.
Ed ancora nel 1761 è il Cardinale Ganganelli, futuro Papa Clemente XIV, che da Roma ringrazia con una lettera l’Abate Antonio Tocci di Cagli per avergli inviato squisite casciotte.
La temperatura ideale di conservazione della Casciotta d’Urbino DOP è di 4-8 °C. Una volta riportata a temperatura ambiente, la Casciotta viene tradizionalmente consumata come formaggio da tavola, in abbinamento a salumi e pane di montagna. Può anche essere servita come piatto unico. Estremamente duttile in cucina, è impiegata come ingrediente nella preparazione di altre pietanze. A fine pasto, viene consumata in abbinamento con frutta caramellata o dolci. L’impiego della Casciotta d’Urbino in cucina ed a tavola sono determinati dal grado di maturità e quindi di sapore e morbidezza del formaggio: se particolarmente fresco, ad esempio, è più indicato nelle mantecature e nelle salse; se un po’ più consistente e mediamente maturo entra nelle farciture e nei ripieni. Agli antipasti ed ai primi delicati a base di Caciotta vengono generalmente abbinati vini leggeri, mentre a primi e secondi piatti dal sapore più deciso vini mediamente corposi. Come dessert, si sposa bene con vini dolci.
Nelle Marche oltre alla celebre Casciotta, vedono la luce anche altri pecorini: da quelli dei pascoli alti dei monti Sibillini, al pecorino di Monte Rinaldo ottenuto con caglio di agnello lattante, che prima di essere usato è fatto invecchiare alcuni mesi, e poi mischiato alle erbe del posto. Altri sapori misteriosi si sprigionano dall’area di Talamello dove il Formaggio di Fossa la fa da padrone per accompagnare paste in brodo, salse o confetture.
Prodotto solamente da latte vaccino intero è invece lo Slattato, formaggio fresco del quale si hanno testimonianze certe già nel ‘700, anche se è risaputo che alla corte dei Montefeltro i formaggi (tra i quali lo Slattato) venivano presentati nei banchetti e consigliati per sigillare lo stomaco.
L'unione di due elementi apparentemente inconciliabili, ovvero latte e limone, offre in questa regione il Cacio a forma di limone (o limoncello): formaggio a pasta fresca prodotto con latte ovino crudo, la cui crosta è ricoperta di scorza grattugiata di limone. Un Cacio Limoncello viene citato anche da Bartolomeo Scappi nella sua "Lista delle vivande" .
Infine ricordiamo che nelle Marche, per stagionare il formaggio, è molto praticato il tradizionale metodo di affinamento in botte, dove il prodotto viene immerso in strati alterni di foglie di noce e castagno, o coperto con le erbe aromatiche locali.

Conserve Marchigiane

La cultura contadina è ben radicata in questa regione collinare ricca di vigneti, oliveti e colture varie.
La gastronomia locale ha il profumo dell’aglio, del finocchietto, delle scorze d’arancio o di limone.
Con le olive si confezionano le rinomate ‘ascolane tenere’ in salamoia, mentre con le piante selvatiche si preparano sottolio, sottaceto e confetture. Finiscono in barattolo: cardi, carline, boccioli di calendula e di tarassaco, finocchio marino, germogli di pungitopo e fiori d’acacia.
Ma è nei preparati dolci che si trovano i nomi e le combinazioni più originali.
Dal sapore di festa è la lonzetta di fico, a forma di salama avvolta in foglie di fico legate con fili di lana, preparata con un composto di fichi essiccati, macinati e uniti a mistrà, rhum, semi di anice, noci e mandorle tritate; un tempo questa era una dolcezza natalizia, oggi accompagna formaggi di fossa e ricotte.
Emblemi delle tradizioni passate sono la marmellata di mele e radici di cicoria, la salsa di corniole e di prugnole, la paccuccia con mele e pere.

L’area del Verdicchio e Rosso Piceno

Si può ritenere che la coltura della vite fosse fiorente sulle pendici collinari marchigiane già prima della conquista Romana (268 a.C.). Allora la viticoltura era fra i settori portanti dell’economia agricola, tanto che prima Catone e po Varrone scrissero ammirati sulle elevate rese dei vigneti della sponda adriatica tra il Piceno e il Riminese. Plinio riportò nei suoi scritti che il vitigno “Hirtiola” oltre ad essere tipico dell’Umbria lo era anche del Piceno, e ciò proverebbe l’influenza Etrusca sulla viticoltura marchigiana. Lo stesso Plinio lodò i vini di Teramo e quelli di Ancona, questi ultimi definiti eccellenti e molto graditi per il loro sapore anche dallo storico Strabone. Con la caduta dell’Impero romano e l’invasione dei barbari, le notizie sulla viticoltura marchigiana diventano incerte. Da alcune fonti risulterebbe che il re dei Visigoti Alarico, per ritemprare le energie dei suoi combattenti, avrebbe portato con se “quaranta some in barili” di vino Verdicchio.
Rare sono le notizie nel Medioevo ma sembrerebbe che nell’area, per l’introduzione di nuovi vitigni e del miglioramento tecnico nella vinificazione, apparirono vini come l’Osimano, il Gaglioppo o Vernaccia. Pier de’ Crescenzi testimoniava che il Trebbiano era diffuso in tutta la regione e produceva vino nobile, dalle caratteristiche gradevoli e molto serbevole.
Nel ‘500 Pietro Aretino, in una lettera inviata al Sansovino, parla dei vini delle Marche e del Verdicchio, come la toccasana di tutti i mali. Alla fine dello stesso secolo il Bacci (d’origini marchigiane) difese la produzione della regione, segnalando gli eccellenti Moscato e Malvasia dell’ascolano, ma facendo un distinguo sugli altri vini prodotti. “Fiacchi, pingui e acquosi” quelli dei terreni di pianura del versante sinistro dell’Appennino; “sinceri” non abbisognevoli di alcuna manipolazione quelli provenienti dalle vigne sulle quali spirava l’aura marina. Infatti, a quei tempi per aumentare il grado zuccherino dei mosti, se ne praticava la cottura, che però peggiorava la qualità dei vini. Col passare dei secoli, il settore vitivinicolo dell’area si elevò sempre più in qualità e quantità, raggiungendo ai primi dell’Ottocento un quadro abbastanza vicino all’attuale. Il Verdicchio di Matelica fu il vino preferito dal pesarese Rossini (XIX sec.), e anche Giuseppe Garibaldi, nel 1849 in procinto di marciare alla volta di Roma, individuò in questo superbo nettare la capacità di infondere nei suoi volontari coraggio ed entusiasmo.
Oggi le Marche non sono solo Verdicchio dei Castelli di Iesi o di Matelica (dalla tipica bottiglia a forma d’anfora, il cui nome fa riferimento al colore dell’acino che anche maturo non perde i riflessi verdi). Qui si producono anche ottimi rossi, sia nella categoria dei vini da tavola che in quella delle DOC, come il Rosso Conero e il Rosso Piceno.

Fonte
TaccuiniStorici.it  Testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.

giovedì 13 ottobre 2011

Tagliolini Ai Sapori Di Bosco

Ingredienti per 4 persone

320 G Pasta Tipo Tagliolini
250 g di Salsa Di Noci ( la ricetta segue )
2 Cucchiai di Panna
300 g di Castagne
Gherigli Di Noci
Sale
10 Biscotti Amaretti
1 Foglia di Alloro
Rosmarino
1 Noce di Burro Fresco
1 Manciata di Parmigiano Grattugiato

Ricetta

Cuocere le caldarroste nell'apposita padella con i buchi, poi sbucciate e spezzettate grossolanamente le castagne cotte. Versate il sugo di noci confezionato in un pentolino, scioglieteci la panna e, mescolando delicatamente, aggiungete le caldarroste, gli amaretti (se non piacciono si possono anche non mettere) e i gherigli di noci tritati non troppo finemente. Regolate il sale e il pepe, profumate il composto con l'alloro e il rosmarino e cuocete i tagliolini in acqua bollente salata. Una volta scolati si mettono nel tegame ove avete preparato il sugo di condimento mescolando velocemente e, se vi pare il caso, aggiungendo una noce di burro fresco di ottima qualità. Si servono calde con una manciata di parmigiano.

Salsa Alle Noci base

Ingredienti

Alcune Noci Ben Tritate
Olio D'oliva
Sale
Pepe
Aglio

Preparazione

Mescolare alle noci tritate l'olio d'oliva, il sale, il pepe e l'aglio.

martedì 11 ottobre 2011

Ottobre, tempo di .......Cachi !

Kaki pane degli Dei

Il kaki (cachi) è il simbolo dell’autunno, stagione particolarmente generosa di doni che arricchiscono la nostra tavola: dalla frutta alla verdura, dal vino ai funghi, almeno la gola non rimpiange la bella stagione. Conservando le caratteristiche dei frutti più estivi: zuccherinità, succosità e colore, la sua morbida polpa gli ha fatto meritare il nome scientifico di diospiros cioè “pane degli dei”.
Originario delle regioni calde della Cina, dove arrivò oltre un millennio fa, è considerato l’albero dalle sette virtù. Lunga vita, grande ombra, assenza di tarli e grandi foglie con cui si può: giocare, accendere un fuoco e concimare la terra. Il suo arbusto è così resistente alle avversità atmosferiche, da non aver bisogno d’eccessivi trattamenti.
In Europa il kaki è arrivato alla fine del ‘700 come pianta ornamentale, ma l’interesse quale albero da frutta, in Francia e successivamente in Italia, risale a dopo la metà dell’800. Il primo esemplare impiantato nel nostro paese, fu posto nel 1871 al giardino fiorentino di Boboli.
Pare che Giuseppe Verdi , conquistato dalla dolcezza dei kaki, ne sia stato uno degli ammiratori più ghiotti.
Questi frutti, ottimi per marmellate, gelatine di frutta e crostate, sono ideali come dessert, e se non volete servirli al naturale (ricordate si mangiano scavando la polpa con un cucchiaino)

Kaki alla Giuseppe Verdi

Il grande musicista sembra che apprezzasse questa preparazione.
Lavate ed asciugate dei kaki, eliminate il picciolo, tagliateli a metà orizzontalmente e disponeteli su un piatto.
Cospargeteli quindi di zucchero e irrorateli con champagne fresco. Lasciateli in “fresco” per un po’ di tempo, prima di servirli come dessert.

sabato 8 ottobre 2011

Ottobre , tempo di ...........Castagne!

Zuppa di porri e castagne

Ingredienti per 8 persone

750 G di Castagne Secche
10 Porri
200 Cl di Latte
125 G di Burro
1/2 Bicchiere di Vino Bianco Secco
Olio D'oliva Extra-vergine
100 G di Formaggio Grana Grattugiato
2 Foglie di Alloro
24 di Violette Candite

Preparazione

Mettete in ammollo le castagne per almeno 30 minuti. Quindi bollitele per circa un'ora in acqua con due foglie d'alloro. Nel frattempo fate stufare i porri mondati dalla parte verde, lavati, e tagliati a rondelle, in un tegame con 125 g di burro e mezzo bicchiere di vino. Scolate le castagne, fatele insaporire per una decina di minuti nel sughetto di porri e ricoprite il tutto di latte. Portate ad ebollizione. Aggiungete poco sale e servite accompagnato dalle violette candite e dal formaggio grattugiato. Naturalmente, al posto delle castagne secche si possono utilizzare quelle fresche, raddoppiando il peso. Per sbucciarle incidetele prima con un piccolo taglio a croce quindi bollitele, scolatele e levate la pellicina finché sono ancora calde.

Composto di Mele cotogne

Affare chodoniato bono vantaggiato.
Le mele cotogne, già dal medioevo non venivano mangiate crude, ma servivano solo per fare preparati cotti.
Era in uso dire, a proposito della partoriente che mangiava mele cotogne, che avrebbe dato figli di segnato ingegno.
Ancor oggi questi frutti servono per fare marmellate e per essere aggiunti a composti realizzati con altra frutta.

Preparazione della cotognata medievale

Cuocere le mele in acqua fino a disfarle. Passare al setaccio e tenere all’aria per tre giorni. Aggiungere tre parti di miele per ogni parte di passato e far bollire nuovamente il tutto. Al termine della cottura addizionare delle spezie
pregiate (cannella, pepe, zenzero, garofano ecc).
Stendere il composto su un panno bagnato e farne dei fogli spessi come un mignolo, da tagliare a quadretti e da presentare su foglie di alloro.
L’avvertenza nella cottura è di rimescolare continuamente, come del resto viene fatto tutt’ora con le nostre marmellate casalinghe.
Il Monaco medioevale consigliava inoltre se il preparato era destinato ai malati di aggiungervi dello zucchero.

domenica 2 ottobre 2011

Ottobre , tempo di ..........Zucca!

Sformato di zucca e prosciutto

Ingredienti (per 4 persone):
1 kg di polpa di zucca, 100 g di prosciutto crudo, 5 uova, 150 g di parmigiano, 1 cipolla, olio extravergine di oliva, prezzemolo, cannella, burro

Preparazione:
mondare e tagliare a pezzettoni la zucca, poi cuocerla in forno a 160°C per 1 ora in una teglia oliata. Sfornarla e passarla al passaverdura fino a ottenere una purea. In un tegame a parte far soffriggere in poco olio un trito di prosciutto con la cipolla e il prezzemolo. Unire 20 g di burro, farlo sciogliere e spumeggiare e poi aggiungere la purea di zucca. Mescolare bene il tutto e cuocere per qualche minuto. Spegnere il fuoco e amalgamare al composto 3 cucchiaio di parmigiano, la cannella, i tuorli d'uovo e gli albumi montati a neve. Versare il composto omogeneo in uno stampo rivestito di carta da forno leggermenet unta, livellare con uan spatola inumidita nell'acqua e infornare per circa 30 minuti a 200°C.