venerdì 30 dicembre 2011

Buon Anno a tutti quanti con .............


Zampone Modena IGP

Lo Zampone Modena IGP e` un preparato di carne dalla forma di arto anteriore di maiale (completo di falangi distali), realizzato insaccando all’interno del rivestimento cutaneo una miscela di carni suine. Si presenta di consistenza morbida. Al taglio la fetta e` compatta, di granulometria uniforme e colore roseo tendente al rosso.
Il prodotto deve essere facilmente affettabile e tenere la fetta. Il gusto e` caratteristico. Secondo la tradizione, lo Zampone Modena IGP nacque nel 1511, a seguito della necessita` da parte degli abitanti di Mirandola di trovare una tecnica per conservare la carne di maiale, durante l’assedio dell’esercito di Papa Giulio II della Rovere. La leggenda narra che i maiali furono macellati per evitare che cadessero nelle mani degli invasori e le loro carni, macinate e insaccate nelle zampe dei suini, diedero vita ad un originalissimo prodotto che ebbe grande successo nei secoli a venire. Fu cosi` ideata la pratica di insaccare le carni prima nella cotenna, da cui ebbe origine il Cotechino, ed in seguito nelle zampe, da cui nacque lo Zampone.
Sul finire del XVIII secolo, la trasformazione in strutture piu` grandi delle prime due botteghe salumiere, Frigeri e Bellentani, ne favori` la diffusione nei mercati limitrofi. Riferimenti in merito si trovano in alcune lettere autografe di Gioacchino Rossini proprio al signor Bellentani di Modena.
Lo Zampone Modena IGP puo` essere acquistato fresco o precotto. In quest’ultimo caso, essendo chiuso e sigillato, puo` conservarsi per un piu` esteso periodo di tempo, senza che ne vengano in alcun modo alterate le peculiari caratteristiche organolettiche e gustative. Questo prodotto - dal sapore denso, forte e molto aromatico - e` tradizionalmente presente sulle tavole durante le festività del Natale ed a Capodanno. Viene servito a fette abbastanza spesse in abbinamento a lenticchie, ma anche con fagioli in umido, pure` di patate o spinaci al burro e Parmigiano-Reggiano.
Recentemente si sta apprezzando il gusto tipico di questo insaccato anche inserito in ricette originali, come ad esempio con spaghetti Thai, germogli di soia, salsa di ostriche e sesamo tostato.


Lenticchie storia di un simbolo

Le lenticchie, alimento base per i popoli nomadi fin dal Neolitico, assumono fin dalla coltivazione un significato ben augurale. La loro coltivazione inizia nelle terre dell’antico Egitto diventando subito un alimento nutriente di piccole dimensioni ma di grande spessore nell’arte del cibare. Dall’Egitto già nel 525 a.C. e precisamente dall’antichissima Pelusio sul Nilo che un mito vuole patria del grande Achille, si racconta che le navi egizie rifornivano regolarmente i porti di Grecia ed Italia di lenticchie. E da qui la lenticchia oltre che alimento diventa anche elemento d’ interpretazioni. Le lenticchie nell’antichità furono collegate simbolicamente anche alla morte. Basta rileggere il notissimo episodio scritto nel libro della Genesi dove ci racconta di Esaù che rientrato affamato dalla campagna, vide Giacobbe che aveva cotto un piatto di lenticchie. Quando gli chiese da mangiare poiché era sfinito, Giacobbe chiese in cambio la primogenitura, e Esaù accettò (cfr. Genesi 25,29-34). Quindi abdica a favore del fratello, di essere lui il padre, la guida ed il Re degli ebrei, combinando una compravendita cosi sfavorevole all'uno, quanto favorevole all'altro. E’ il primo cibo preparato dall’uomo del quale si ha testimonianza scritta, non meno di 4000 anni fa. Parafrase che si usa ancora quotidianamente nei modi di dire, delle persone che si vendono per poco, per un piatto di lenticchie appunto, che significa ricevere un valore bassissimo rispetto a quello che si dà in cambio. Da allora l’antica tradizione ebraica impone che gli Ebrei mangino lenticchie quando sono in lutto, in ricordo di Esaù per aver svenduto quanto aveva di più prezioso. Per millenni la lenticchia risulta uno dei prodotti più importanti nell’agricoltura e nel commercio del Mediterraneo e alimento fra i più comuni ed apprezzati ad Atene come a Roma dove Artemidoro, nato ad Efeso nel II secolo e vissuto a Roma, nella sua opera onirica “Interpretazione dei sogni” accomuna le lenticchie con l’annunciazione di lutti mentre Plinio li glorifica per il loro alto valore nutritivo e per la virtù di infondere tranquillità all’animo. Di quale sublime devozione era tenuta la lenticchia basterebbe conoscere la storia della colonna egizia del colonnato di Piazza S. Pietro, portato a Roma nel I secolo per volere di Caligola, l’obelisco attraversò il Mediterraneo su una nave immerso e protetto da un carico di lenticchie. Lenticchie servite in minestra, puls-lentis, da cui trae poi nome il pulmento, quindi con l'arrivo del mais trasformato in polenta. Ancora nei secoli dopo le lenticchie torneranno a tormentare i sogni adducendo fortuna o lutti a seconda di chi interpretava e gradiva questo piccolo legume. Nel Medioevo i ceti più abbienti, i nobili ricchi relegarono il consumo delle lenticchie alla mensa dei poveri, servite e mangiate quasi esclusivamente nei conventi e fra la gente, umile ma dotta, che diede alla lenticchia il ruolo che meritava, nutrire bene, piacere e costare poco. Ancora, come a rimarcarne l’inutilità come cibo goliardico fu definito nel Rinascimento, dal medico Petronio, cibo caldo e secco, adatto a coloro che vogliono vivere castamente.  In Francia al tempo di Luigi XIV le lenticchie venivano date come cibo ai cavalli e Alexander Dumas nel suo “Grand Dictionnair de Cuisine del 1873” le considerava un cibo pessimo. Come tutti gli alimenti e gli elementi destinati all’eternità la moda non ne intacca le virtù né li seppellisce. Cosi la lenticchia ha attraversato la simbologia del tradimento legandosi ai Patriarchi ed accompagnato lutti e morti, tormentato sogni e ricevuti superficiali giudizi da gente di spessore nobile ma leggera di gusto.
Annotiamo infine una curiosa credenza popolare sulle lenticchie. In quanto di piccole dimensioni, a parità di peso con altri legumi, si presentano nel piatto in numero maggiore. Perciò mangiare lenticchie nel primo giorno dell'anno, induce la famiglia a sperare di guadagnare un pari numero di monete d’oro.

Fonte: TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.





Zampone con lenticchie

Ingredienti per 4 persone

1 zampone da 1 kg, 250 g di lenticchie, 500 g di polpa di pomodoro, 30 g di pancetta, 1 cipolla, 1 costa di sedano, 1 carota, 1 foglia di salvia, olio, burro, sale, pepe


Procedimento
Lasciate le lenticchie in ammollo per 3 ore. Eliminate quelle venute a galla, sgocciolate le restanti lenticchie e lessatele per 1 ora e 30 minuti circa in acqua pochissimo salata.
Con un grosso ago praticate sulla cotenna dello zampone numerosi fori. Avvolgetelo in una garza o nella carta d’alluminio, immergetelo in una pentola d’acqua fredda, ponete sul fuoco, portate a bollore, poi lasciate sobbollire piano e a recipiente coperto per 3 ore abbondanti. In un tegame scaldate due cucchiai d’olio e una noce di burro, insaporitevi la foglia di salvia spezzettata, pancetta, carota, sedano e cipolla tutti ben tritati, mescolate. Dopo 10 minuti aggiungete
pomodoro, sale e pepe e cuocete per almeno 15 minuti. Sgocciolate le lenticchie e aggiungetele nel tegame della salsa, mescolate, fate insaporire per 10 minuti.
Ritirate lo zampone, lasciatelo riposare 10 minuti nella sua acqua, sgocciolatelo e tagliatelo a fettine, disponetele sul piatto da portata e intorno distribuite le lenticchie in umido. Servite ben caldo.



mercoledì 14 dicembre 2011

Ecccccoooomiiii!!! Un po' di storia di , come dire, di cucina.



Cuoco: il maestro del gusto

Nell’antica Grecia il cuoco era il personaggio importante nelle case dei potenti, tanto che malgrado le scarse notizie gastronomiche pervenuteci, qualche nome di cuoco è rimasto, per esempio quello del siciliano Ladbaco e Miteco, ricordati anche da Platone. Con le invasioni barbariche, questa figura subì un’eclissi da cui non si risolleverà per tutto il Medioevo. Anche nel Rinascimento il ruolo del cuoco rimase in secondo piano, livellato con quello dello “spenditore” e del “credenziere”, mentre al grado più elevato erano collocati, secondo un’organizzazione canonica nelle corti e nelle grandi famiglie italiane, i “tre principali di bocca” (scalco, trinciante, e bottigliere). Ciononostante il cuoco, in questa medesima fase, anche se obbligato a seguire le direttive impartite dallo scalco continuò a mantenere funzioni, prerogative e responsabilità che gli erano proprie, serbando l’appellativo di “ufficiale secreto dei nobilissimi Principi…” come scrive il Panunto .
A metà ‘500 fu Bartolomeo Scappi, cuoco del pontefice Pio V, a rivendicare una qualifica rapportata alla disciplina, tale da motivare il titolo di “maestro”. Ed è significativo che proprio alla fine dello stesso secolo Tommaso Garzoni, nella “Piazza universale di tutte le professioni del mondo”, veda nei cuochi gli “architravi” della “macchina bucolica” e i “protomaestri di ogni scienza”.
Solamente nel ‘700, quando lo scalco andò ad identificarsi nel “maggiordomo”, il cuoco conquistò diffusamente, partendo dalla Francia, la qualifica tanto agognata di “maestro”. E’ poi dall’ottocento, che grazie a cuochi come Careme, questa figura (acquisisce una insegna) diventerà “strategica” al punto da influenzare le decisioni politiche e sociali di “Potenti” e “Regnanti” (Congresso di Vienna).
A conferma dell’immortalità dell’arte culinaria, ancora oggi possiamo deliziarci con le “ricette” create dei cuochi dell’ottocento e del primo novecento, entrate ormai a far parte del patrimonio del gusto dell’umanità.


Uniformi di cuochi e personale di servizio

L’uniforme professionale dei cuochi, capisala e camerieri obbedisce tutt’oggi a un codice cromatico rigidamente imperniato sul bianco e sul nero. Prima dell’Ottocento, così come risulta da molteplici testimonianze, regnava fra le persone di servizio una diversità di colori e fogge.
Gli scalchi vestivano con un’eleganza degna dell’ambiente aristocratico in cui operavano. Nelle cucine cuochi e sottocuochi portavano il grembiule bianco, rimboccandosi le maniche e tenendo la testa coperta da cappelli e berretti. Solo gli addetti alle mansioni più umili, come i lavapiatti, operavano a capo scoperto e senza camicia. Ai vari addetti la preparazione dei piatti e del servizio era di norma raccomandato il color scuro, con abiti che s’ispiravano non ad un codice professionale unico, ma ai criteri di gusto della Corte dove operavano.
Lo scalco presentava l’eleganza di un gentiluomo, il trinciante si cingeva della spada, il credenziere addetto a fornire la parte più golosa del pasto (antipasti, insalate, confetture e frutta), seguiva la moda. Lo scalco aveva diritto in principio alla barba, ai baffi e, dalla seconda metà del ‘600 alla parrucca, mentre i subalterni dovevano preferibilmente essere rasi, come attestano le incisioni dello Scappi.
Insomma quanto più le mansioni erano direttive, tanto più si adottava uno stile cavalleresco, ma questo non impediva che le rispettive funzioni comportassero delle insegne di mestiere.
Per esempio, il trinciante addetto al taglio delle carni durante il servizio a tavola metteva un tovagliolo piegato per il lungo sopra la spalla sinistra (uso che sopravviverà alla scomparsa di questa figura, dall’Ottocento fino ai giorni nostri, nel tovagliolo posto sotto l’ascella e sull’avambraccio dei camerieri).
L’introduzione di un abbigliamento dallo stile cromatico rigido imposto a tutti, bianco in cucina e bianco-nero in sala, fu il frutto della nuova funzione dell’abito professionale dell’Ottocento.
Essa era ispirata da imperativi d’igiene e di cerimoniale. Il bianco, dalla giacca del cuoco alla tovaglia, alle stoviglie designava la pulizia impeccabile che doveva saltare all’occhio. Il nero lo portavano solo coloro che servivano con la precisa intenzione di incarnare un’eleganza compassata.
Con l’imporsi di questa rigida bicromia si voleva anche rafforzare l’aspetto militaresco della gestione ristorativa. I cuochi avevano giacche bianche con doppio petto e due lunghe file di bottoni, ridisegnate proprio a partire dalle giubbe dell’esercito, e portavano alla cintola il fodero di un coltellaccio, segno cruento dell’arte. Il personale di sala indossava la marsina con cravatta bianca, e solo il primo cameriere aveva il diritto a portare quella nera, simbolo assimilabile allo “scuro” come grado più elevato.


Toque blanche - simbolo del Cuoco

Il berretto da cuoco, “toque blanche”, è il simbolo della professione culinaria in tutto il mondo. Alfred Suzanne, illustre cuoco dell'ottocento, racconta che il termine "toque" non era gradito ai suoi colleghi dell'epoca, i quali non volevano dare al proprio cappello, cioè all'insegna classica della corporazione, lo stesso nome dato al copricapo dei professori universitari. Suzanne diceva che sarebbe stato più logico chiamarlo "couvre-chef" giocando sulla parola chef, che indica sia un capo in generale, sia colui che dirige la cucina. Ma sempre secondo Suzanne, si deve a Careme , l'idea di adottare per i cuochi questo particolare tipo di berretto. Nel 1823, quand’egli era ancora in servizio alla Corte di Giorgio IV d’Inghilterra, scorse un copricapo del genere in testa ad un praticante legale e subito il suo senso estetico e il suo amore per l’igiene ne furono colpiti. Fu lui stesso ad adottarlo nella versione bianca per sé e per i propri collaboratori. Si racconta abbia affermato che, sostituendo la cuffia di cotone (tipo il berretto da notte dei nostri nonni), copricapo comune a tutti i cuochi, si sarebbe dato loro un aspetto più importante e di maggior prestigio. Caréme non era soltanto un grande cuoco, ma anche un autentico opinion leader, ecco perché subito furono in tanti ad imitarlo. Prima dell'adozione della "toque" i copricapi dei cuochi variavano da nazione a nazione: gli inglesi ne adottavano uno di stile scozzese, gli spagnoli un berretto di lana bianca che corrispondeva a quello dei toreri, i tedeschi uno simile ad un copricapo militare. Curiose erano le considerazioni che un tempo veniva fatte sul modo di calzare la "toque", tanto da classificare il carattere di uno chef a seconda del modo in cui si sistemava il berretto.
Colui, per esempio, che era solito portarlo leggermente gonfio e pendente all’indietro, era quasi sempre un uomo autoritario, aggressivo e collerico. Lo chef che posava spavaldamente la toque inclinata su una parte dell’orecchio, era ritenuto uno spaccone e uno che si dava eccessive arie. Il berretto inamidato e con la parte pieghettata piuttosto alta, era adottato dai cuochi bassotti che cercavano così d'innalzarsi di fronte ai sottoposti.


Figure di Servitori

Già ai tempi dell'antica Roma esistevano diverse figure di servizio tutte biancovestite che attendevano al banchetto: il "Triclinarca" direttore dei servizi, i "Pincernaie" addetti a versare il vino, gli "Structores" dispensatori di vivande (camerieri), gli "Scissores" responsabili di tagliare le carni. Fu però nel Rinascimento che queste figure assunsero ruoli ben definiti.

Lo Scalco
Il termine deriva dal gotico "skalke" (servo) ed entrò nell'uso intorno al Trecento per designare l'arte dello scalcare, cioè di tagliare e dividere le carni.
Nel XVI sec. la scuola italiana veniva reputata fra le più prestigiose. I nobili francesi, tedeschi e persino inglesi, mandavano i propri figli in Italia sia per studiare la scherma che l'arte di trinciare pavoni, capponi, cinghiali e selvaggina varia.
La carica di scalco trinciante era onoratissima presso tutte le corti, e comprendeva in genere, oltre all'incombenza diretta per l'azione specifica del trinciare le carni, anche una sovrintendenza generale sugli approvvigionamenti, sulle cucine e sulla tavola dei nobili padroni. Poi vi fu la tendenza a dividere le mansioni dello scalco in scalco vero e proprio con funzioni di maggiordomo ed economo, assistito da un trinciante e da un coppiere che, ovviamente, si occupava delle bevande.
Per una tradizione che risaliva addirittura a Carlo Magno, nelle corti principesche e ducali lo scalco era un nobile, almeno come titolare. Uno scalco di classe faceva onore al suo padrone, il quale non lesinava certo doni e prebende. Occorreva diplomazia nel conoscere i gusti dei commensali e nell'attribuire loro la parte spettante secondo una precisa graduatoria.

Il Trinciante
Non potevano aspirare a questo “titolo” certi trinciatori di case di poco conto, che con un canovaccio alla cintura e le maniche rimboccate come beccai, tagliavano pollame e carni con gran coltelli sopra gran taglieri, senza seguire regola alcuna e senza tirocinio o studio.
Il trinciante doveva trinciare, dinanzi al proprio padrone o bene in vista, e scegliere forcine e coltelli adatti a ciò che doveva tagliare.
Il trinciante si presentava con le forcine e i coltelli poggiati su di un tondo, solitamente di peltro o di un metallo più prezioso, ricoperti da una salvietta. Nel tondo vi era anche una saliera. Teneva un altro tovagliolo sulla spalla sinistra per pulirsi le mani. Tagliava le varie carni e poi le poggiava sui tondi del padrone e dei commensali, cospargendole con un po' di sale, sparso dalla punta del coltello stesso. Il trinciante, di tutto ciò che tagliava, poteva scegliere una parte abbastanza degna come proprio cibo.

Il Coppiere
Doveva avere dei requisiti personali ben precisi: essere giovane, garbato, né troppo bello né troppo brutto, allegro, costumato, discreto, dalle mani bianche e delicate. A una delle dita doveva portare un anello prezioso, il suo abito doveva essere lungo e drappeggiato, in capo doveva portare una berretta da prete, ai piedi doveva avere calze scarlatte e scarpe di velluto nero.
Doveva porgere la coppa, coperta da una salvietta, con mano ferma, scoprirla, versare il vino, allungato con l'acqua, come usava a quei tempi, e sistemare sotto la coppa un piatto concavo.

Lo Spenditore
Era l'addetto alle provvigioni e questi erano i requisiti necessari: capacità di scegliere fornitori onesti, saper acquistare bene le merci, controllarle al loro arrivo badando che le stesse fossero consegnate nei loro canestri puliti e chiusi a chiave, perché gli sguatteri non potessero approfittarne.
In particolare, oltre che capace, doveva essere onesto, saper leggere e scrivere, avere buoni gusti, essere pulito. Da lui ci si attendeva che la dispensa fosse sempre fornita e che si accorgesse subito se qualcosa stava andando a male.


Fonte: TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.


domenica 11 dicembre 2011

Tranquilli non sono sparito


Prossimamente qualche altra ricettina, per ora gustiamoci questa piacevole canzone.

sabato 26 novembre 2011

Consigli dai birrifici


Ed ora farò un po' di pubblicità a questa birra, che io trovo buonissima.

Birreria Cittavecchia

E' un vero e proprio microbirrificio dal 1999, non ha un suo pub, ma rifornisce ristoranti e pub della zona di Trieste. Il mastro birraio, Michele Barro, e' un appassionato ed esperto homebrewer (lo trovate sul newsgroup it.hobby.birra) che nell'estate 99 ha fatto il grande passo.
Produceva inizialmente una lager chiara ed una rossa in stile Vienna, più forte ma più attenuata, gustosa senza essere pesante. In seguito si e' aggiunta anche la strong ale formidabile e la weizen.
Per notizie sulla gamma e dove reperire le birre, consultate il loro sito. La produzione si attesta
sui 1000 hl annui.

Questi sono gli abbinamenti che il birrificio consiglia.

Cittavecchia chiara

Frittata con bruscandoli 

Ingredienti

8 uova
200 gr. di bruscandoli (cime di luppolo)
100 gr. di cipolla
35 gr. di burro
0,25 decilitri di olio extravergine di oliva
2 cucchiai di grana padano grattugiato
sale e pepe

Preparazione
Lavate, mondate e tritate i bruscandoli, quindi fateli cuocere a fuoco lento in una padella dove avrete precedentemente fatto imbiondire nell'olio e burro la cipolla tritata.
Quando i bruscandoli saranno appassiti, amalgamateli in una ciotola assieme alle uova sbattute con il grana e un pizzico di sale e pepe.
Cuocete l'impasto in un padellino del diametro di 12 cm. ricavandone poi
otto piccole frittate che dovranno essere alte e dorate.

Cittavecchia rossa

Jota Triestina

Tipico piatto che caratterizza la cucina triestina e, si ritrova, sotto forma di varianti diverse, in un’area che comprende il Friuli e la Slovenia, ma la vera capitale e’ Trieste. L'impiego di ingredienti poveri fa supporre (fagioli bolliti e crauti) che sia nata come un modo per riutilizzare gli avanzi .
Viene preparata con i “capuzi garbi” ed i fagioli in una ricetta che non ammette alcun tipo di
innovazione checchè anche Vissani c’abbia provato con una sua versione con capesante che ha
ottenuto consensi incondizionati dagli snob appassionati di gastronomia che circolano a piede
liberone ll’intera penisola, ma a Trieste e nell’intera zona di produzione di questa prelibatezza
rimasti sbalorditi e presi all sprovvista hanno finito poi col riderne.
E già, la jota è un piatto “tradizionalista” per eccellenza, quasi a paragonarlo al
 fondamentalismo religioso islamico, e l’ultima variante si pregia di avere sul groppone almeno
cinque secoli di storia .
Cesare Fonda, appassionato storico e gastronomo, le ha dedicato addirittura un simpaticissimo
libro in dialetto triestino, Ocio a la jota (Edizioni Italo Svevo - Trieste), che bisognerebbe leggere
per capire quanta storia ci sia in questa ricetta così povera, ma geniale.
Per dirne solo una: qualunque triestino vi dirà che la jota si fa coi capuzi garbi (cioè con i cavoli
cappucci acidi), che altro non sono che i crauti.
Il fatto che i triestini si vantano di aver inventato la ricetta per conservare i capuzi nel sale fino a
farli fermentare e inacidire fin dai tempi di Carlo Magno.
Se fossero stati importati dall’Austria, come molte altre specialità, si sarebbero chiamati crauti,
come a Milano o a Venezia.
Ma a Trieste il copyright parla di capuzi garbi, e non si può far torto a un’intera città.
In una jota che si rispetti bisogna utilizzare necessariamente crauti di quelli che al mercato si
vendono ancora sciolti, nelle mastelle di legno, così nauseabondi da richiedere almeno un
lavaggio in acqua fredda. Lo stesso discorso vale per i fagioli: un tempo venivano utilizzati i
fagioli con l’occhietto ( fasioi co l’ocio), ma con l’evoluzione dei tempi anche la cucina ha i suoi
cambiamenti ed ecco che nella jota, dal 1492, anno della scoperta dell’America entrano anche
le patate ed i fagioli con l’occhio lasciano il posto a quelli rossi (borlotti o di Lamn).
La ricetta della jota più o meno è questa :
Un quarto di chilo di fagioli secchi messi a mollo la sera prima, e poi bolliti a parte assieme a tre
patate a pezzetti e un pezzo di maiale affumicato (piedino, costine o altro), un chilo di capuzzi
garbi stufati con lo strutto , uno spicchio d’aglio e un paio di salsicce affumicate (quelle di
cragno!, a grana grossa, sono le migliori). Quando fagioli e patate sono cotti se ne passano una
metà con il passaverdurre per rendere la minestra più densa, poi si uniscono i capuzzi e, tocco
finale, si aggiunge l’aiprem, fatto con due cucchiai di farina rosolata nell’olio (o meglio strutto).
Sarebbe la roux francese, insomma un legante, ma le vecchie cuoche triestine chiamano questo
disfrito con il suo antico nome ungherese.

Ma infine, chi ha inventato la jota,  nella notte dei tempi?
E ritorniamo sempre all’aiuto di Cesare Fonda il quale ci propone una sua teoria:
un po di fagioli rimasti in una pignatta, un po di capuzzi avanzati in un’altra: quantità insufficienti per tutta la famiglia, se non unendoli e allungando il tutto con l’acqua e la farina
fritta.
L’etimologia del nome e’ controversa: c e’ chi lo fa derivare dal tardo latino jutta, brodaglia, il
quale a sua volta originerebbe da una radice celtica; il che e’ molto probabile visto che, come
riferisce il Pinguentini, lo stesso significato di brodo, broda¬glia, beverone o mangime lo si
ritrova nel termine cimbro yot, nell’irlandese it e nel gergo del Poi¬tou jut, mentre in Cecoslovacchia con il termine jucba s’intende una minestra di cavoli.
Ma il termine è diffuso anche in Emilia: a Parma, Reggio e Modena, infatti, con il termine dzota
si indica una brodaglia.
Ed è sempre l’attento Fonda che ricorda anche tutte le altre preparazioni che si ritrovano su tutto
il territorio: quella bisiaca (cioè della zona di Gradisca d’Isonzo) con brovada (rape acide) al
posto dei capuzi, quella carsolina che utilizza meno fagioli ma con l’aggiunta di orzo) quella
sempre carsolina con il mais al posto dell’orzo ed infine la goriziana (metà brovada e metà capuzi.
In Germania, nonostante facciano una massiccia consumazione dei crauti in tutte le salse, questo minestrone e’ —stranamente — del tutto sconosciuto.
Su questo minestrone i triestini non hanno mai smesso di fare esperimenti, prova ne siano le
innumerevoli versioni che variano da famiglia a famiglia, un po come succede per la pastiera a
Napoli.
Per prepararla avrete bisogno di tre recipienti distinti: una casseruola per i crauti, una padella per il disfrito e una pentola per cuocere i fagioli e per completare il minestrone.
Meglio se avete la possibilita’ di usare una pentola in coccio risultato sarà notevole

Ingredienti

un cucchiaio d’olio
un etto di pancetta tagliata a striscio/me un po’ spesse
tre etti di crauti
tre etti di fagioli imbriagoni secchi, oppure borlotti di Lamon o galiziani (saluggia) tenuti a mollo nell’acqua per un ‘intera notte
un po’ di maiale affumicato da scegliere tra orecchio, codino, costine
un etto di cotenna fresca grassa in un unico pezzo
una foglia di alloro due spicchi d’aglio schiacciati e pelati
sale e pepe
mezzo cucchiaio di strutto o un cucchiaio d ‘olio per il soffritto
un altro spicchio d ‘aglio per il soffritto, tritatissimo
due cucchiai di farina

Preparazione
Mettete i fagioli sul fuoco coprendoli abbondantemente con acqua fredda, assieme alla cotenna, al maiale affumicato, alla foglia di alloro e agli spicchi d’aglio. L’acqua non deve essere salata.
Mentre i fagioli iniziano a cuocere, versate l’olio in un tegame e fatevi colorire bene la pancetta, quindi aggiungete i crauti, salate, pepate, coprite il recipiente e continuate la cottura a fuoco molto dolce.
Se sarete bravi, crauti e fagioli saranno cotti assieme, dopo circa un’ora e mezza di sobbollitura.
I crauti vanno sorvegliati spesso e mescolati per evitare che si asciughino troppo attaccandosi al fondo del tegame.
Se necessario, bisogna aggiungere un po’ d’acqua.
Appena prima che i fagioli siano cotti, cioe’ dopo poco piu’ di un’ora, preparate il soffritto: fate riscaldare lo strutto o l’olio in una padella, mettetevi lo spicchio d’aglio tritato e fatelo colorire, quindi unite la farina e — mescolando in continuazione — fatela imbiondire, quindi versate il soffritto nella pentola dei fagioli.
A questo punto unite ai fagioli anche i crauti e, se necessario, ripristinate il livello del liquido.
Salate moderatamente, pepate e ultimate la cottura sempre a fuoco basso.
Se volete potete passare parte dei fagioli.
Il piatto non andrebbe servito subito, ma lasciato a riposare sino al giorno successivo, quando lo si fara’ nuovamente bollire prima di distribuirlo nei piatti.
Da notare, inoltre, che i veri intenditori preferiscono la jota tiepida e non calda: e’ cosi’, infatti, che questa pietanza tocca la perfezione.

Varianti
Con le patate. Non e’ facile ottenere una jota di densita’ ottimale: di solito essa risulta troppo liquida o troppo densa. Nel secondo caso aggiungete altra acqua e fate bollire per almeno ulteriori dieci minuti, ma il risultato finale sara’ compromesso. Nel secondo caso e’ sufficiente aggiungere delle patate lessate e passate, in quantita’ tale da ottenere la densita’ voluta.
Le patate possono essere aggiunte anche crude e a pezzi, circa mezzora prima che i fagioli siano cotti. Verranno passate soltanto a fine cottura e ri¬messe nel minestrone.

Con le luganighe. Dopo un’ora di cottura aggiungete nella pentola dei fagioli due crodighini o due luganighe de Cragno. Ricordo che tutte le salsicce, prima di essere messe a cuocere in una minestra, devono essere ripetutamente bucherellate con una forchetta per evitare che si aprano.

Con l’osso de persuto. Quando mettete a cuocere i fagioli aggiungete anche un osso di prosciutto cotto, di quelli che tutte le salumerie offrono volentieri ai loro clienti proprio per questo scopo. Fate molta attenzione che all’osso non siano attaccate delle parti rancide, riconoscibili per l’odore e per la colorazione giallognola: rovinerebbero irrimediabilmente la iota.
Del tutto inadatto e’ invece l’osso del prosciutto crudo, quasi sempre rancido.

Con l’orzo a la carsolina. Alla jota si puo’ anche aggiungere un po’ d’orzo penato, circa una manciata, da mettere nei fagioli a meta’ cottura. Approfitto per far notare come non sia affatto vero che l’orzo penato vada tenuto a bagno prima della cottura: si cuoce benissimo anche mettendolo come esce dalla sua confezione, solo che ci impiega una quindicina di minuti in piu’.

Con formenton. A meta’ cottura dei fagioli aggiungete una manciata di farina gialla per polenta. Da questo momento sara’ necessario mescolare piuttosto di frequente per impedire che la farina si attacchi.

Lota bisiaca. E’ il compendio delle due varianti precedenti, dunque va preparata con farina gialla da polenta, con fagioli freschi, senza il disfrito e, se si preferisce, sostituendo i crauti con la brovada.

Versione de Vonderweid. Risciacquate molto bene i capuzi garbi e fateli bollire per un’ora e
mezza, allungate con un litro d’acqua, aggiungete due luganighe de Cragno e un po’ di maiale
affumicato, e proseguite la cottura per altra mezz’ora.
A parte intanto avrete fatto cuocere le patate e i fagioli precedentemente ammollati in acqua
non salata. Passate le patate e meta’ dei fagioli e unite il tutto ai capuzi.
Preparare un disfrito di farina imbiondita nell’olio e aggiungetelo alla preparazione. Salate,
pepate e servite, possibilmente dopo aver fatto raffreddare la jota e averla nuovamente riscaldata.

Per risparmiare tempo. Una jota rapida si ottiene insaporendo con la pancetta, per circa venti
minuti, dei crauti in scatola precotti. Per lo stesso tempo verranno cotti anche i fagioli ammollati,
ma in pentola a pressione. Intanto preparerete il soffritto. Alla fine riunirete i fagioli, i crauti e il
soffritto e farete bollire il tutto per altri dieci minuti.


Cittavecchia Formidabile

Strucolo alla carsolina

Ingredienti

250 gr di farina
1 uovo
100 gr di pangrattato
50 gr di burro
80 gr di uva passa
80 gr di noci macinate
30 gr di pinoli
4 carrube grattugiate
sale
80 gr di burro

Preparazione
Lavorare una pasta morbida con un uovo e un guscio di acqua; lasciarla riposare. Stenderla a forma di rettangolo e dello spessore di una costa di coltello su una salvietta infarinata.
Spargere sulla sfoglia pangrattato, burro fuso, uva, noci, pinoli carrube. Arrotolare come uno strucolo aiutandosi con la salvietta; saldare bene i margini della pasta con latte tiepido.
Avvolgerlo in una salvietta cui saranno state annodate le cocche; metterlo in una teglia sopra un piatto capovolto (per evitare che tocchi il fondo).
Lasciar cuocere lentamente in acqua bollente salata per un'ora.
Tagliare lo strucolo a pezzi lunghi sette cm circa, condire con burro rosolato e volendo anche con un po' di zucchero e cannella.
Deve risultare poco dolce.
Sul Carso è spesso condito con burro e parmigiano.


Cittavecchia weizen

Sardoni impanadi 

Ingredienti

500 gr di alici
1 uovo sodo tritato fine
2 cucchiai di pangrattato
1 cucchiaio di prezzemolo tritato
½ spicchio d’aglio tritato
sale
pepe
olio extravergine d’oliva

Per la panatura
1 uovo
farina
pangrattato
olio per friggere

Preparazione
Pulite le alici, rimuovendo la testa, le interiora, la spina dorsale, ma avendo cura di lasciare la coda; apritele a libro e poi asciugatele.
Preparate il ripieno: tritate l’uovo sodo e unite il pangrattato, il prezzemolo e l’aglio. Salate, pepate, date un giro abbondante d’olio e amalgamate il tutto.
Disponete su un piano le alici con la pelle verso l’esterno, ponete su ciascun pesce un cucchiaino di ripieno e coprite con un altro pesce, avendo cura di lasciare la pelle sempre dal lato esterno.
Passate i pesci nella farina, poi nell’uovo sbattuto e infine nel pane grattugiato. Friggete in olio caldo e profondo.
Togliete l’olio in eccesso su della carta assorbente e servite dopo aver cosparso con un po’ di sale.

venerdì 25 novembre 2011

STRINGOZZI e STRASCINATI umbri


La pasta in Umbria è preparata soprattutto con sola farina di grano tenero e acqua, mentre raramente viene utilizzato l’uovo.
Diversi gli esempi:
-“ciriole o ceriole” (sorta di fettuccine ternane), il cui nome secondo alcuni deriverebbe dal latino “cereus” (cereo), il colore bianco della pasta preparata senza uovo, secondo altri dalla forma somigliante alle omonime anguilletta delle acque tiberine;
-“picchiettini”, bastoncini di pasta corta a sezione quadrata;
-“umbricini o umbricelli”, grossi spaghetti tirati a mano, che devono il nome alla somiglianza con i lombrichi;
-“strangozzi o stringozzi”, formato di pasta lunga a sezione quadrata tipica della tradizione contadina di Spoleto e Foligno. Detti anche “strozzapreti o strangolapreti”, e così chiamati per la somiglianza alle stringhe delle scarpe con le quali i rivoltosi anticlericali strangolavano, ai tempi del dominio dello Stato Pontificio, gli ecclesiastici di passaggio;
-“strascinati o penchi”, ruvide lasagnette saltate in padella, che dovrebbero nome e ricetta ad un evento accaduto nel 1494. Protagonista il condottiero Paolo Vitelli, al servizio del re di Francia Carlo VIII, che impossessatosi del castello di Vetranola (Monteleone) ordinò buon cibo, pena la morte per trascinamento con cavallo dei prigionieri. Fu così che dopo aver ricevuto degli “eccellentissimi penchi” con salsiccia, cacio e uova, il Vitelli restituì il castello e la libertà a tutti.
In Umbria la consistenza ruvida della pasta si sposa alla perfezione sia con condimenti robusti a base di carne (soprattutto salsiccia e pancetta di maiale), sia con quelli più leggeri fatti di verdure e pomodori, magari insaporiti da uno spicchio d’aglio. Non manca l’impiego generoso di formaggio pecorino e l’uso di legumi o tartufi. Invece i ragù alla selvaggina (lepre o cinghiale) accompagnano, come nella cucina Toscana, le “pappardelle” all’uovo. Altre paste all’uovo umbre sono: “frascarelli, passatelli, e quadrucci”, serviti soprattutto in brodo, e destinati nella tradizione alle donne che allattavano o agli ammalati.


Stringozzi al tartufo

C’è una leggenda che corre sull’origine di questo piatto, semplice ma allo stesso tempo raffinato. Sembra che sulla collina di Campello Alto (sopra le fonti del Clitunno), nel vicino castello di Pissignano, sia sostato Barbarossa prima di distruggere Spoleto. Probabilmente la cuoca del castello preparò al rosso imperatore degli strangozzi talmente buoni da convincerlo a cambiare la sua idea originale di distruggere l’Umbria.

Ricetta
Disporre della farina a fontana, aggiungere sale, poco olio e acqua tiepida. Impastare fino ad ottenere una panetto abbastanza consistente. Tirare la sfoglia un po’ più spessa delle fettuccine, e tagliarla a strisce larghe la punta di un’unghia. Preparare il condimento facendo dorare dell’aglio tritato nell’olio. Togliere l’aglio dal tegame, lasciar intiepidire il liquido, e aggiungere tartufo nero tritato con poco sale. Con questo intingolo condire la pasta una volta cotta.

sabato 19 novembre 2011

La Coda alla vaccinara


Coda alla vaccinara

La coda alla vaccinara è una ricetta della cucina tipica romana. Richiede parecchie ore per la preparazione, quindi se intendete servirla a pranzo calcolate bene i tempi oppure cucinatela il giorno prima.


Ingredienti:

2 kg. di coda di bue, tagliata a pezzi.
Per la bollitura 1 carotina, 1 porro, 1 costola di sedano, un poco di timo d 1/2 foglia di lauro
Per il trito 125 g di prosciutto grasso e magro, 1 cipollina e qualche fogliolina di maggiorana
2 cucchiai scarsi d'olio
2 dl di vino bianco secco
1 kg di polpa di pomodoro passata al setaccio
1,5 kg di cuori di sedano
1 cucchiaio di pinoli
2 cucchiai di uvetta sultanina ben pulita e lavata
un pizzico di cannella
un pizzico di noce moscata
sale grosso da cucina, sale fino e pepe.

Preparazione:

Fare spurgare la coda di bue, tagliata a pezzetti ne troppo picoli ne troppo grossi, per 4 ore in acqua abbondante e fredda (se volete accorciare i tempi fatela spurgare sotto acqua corrente almeno per un paio d'ore). Mettere i pezzetti di coda di bue spurgati in una casseruola con abbondante acqua fredda e portare ad ebollizione. Sbollentare la carne per una decina di minuti, sgocciolarla e asciugarla con un panno pulito. Mettere i tronchetti di coda in un'altra casseruola con abbondante acqua fredda
salata, (per 3 litri di acqua aggiungere 20 g di sale grosso da cucina). Far prendere l'ebollizione e schiumare ripetutamente con cura, quindi aggiungere le verdure aromatiche e continuare la cottura a calore moderato per 3 ore.
Trascorse le tre ore di cottura, mettere in una casseruola il trito e l'olio e, appena imbiondisce,
aggiungervi i tronchetti di coda, sgocciolati e bene asciutti. Mescolare, far insaporire le carni, bagnare col vino e farlo evaporare. Mescolarvi il pomodoro, condire con sale, pepe e il pizzico di noce
moscata e continuare la cottura per circa un'ora sino al momento in cui la carne si stacca dalle ossa. Importante durante la cottura allungare la salsa, se restringe troppo, col brodo di cottura della coda.
Nel frattempo lessare in acqua bollente leggermente salata i cuori di sedano, che sono stati puliti con cura e lavati; sgocciolarli e, circa 10 minuti prima di ritirare la coda dal fuoco per servirla,
mescolarveli aggiungendo il pizzico di cannella. Fuori dal fuoco completare con pinoli e con l'uva sultanina leggermente ammollata in precedenza.
Versare con molta cura la preparazione cosi' ottenuta in un piatto concavo ben caldo e  servire subito.

 LA CODA ALLA VACCINARA

Ner Rione Regola, tra li vaccinari
ner core antico dela Roma ricca
'n mezzo a li palazzi centenari
è nata 'na ricetta ch'è 'na "chicca".

La coda fin dai tempi... era la cosa
che distingueva 'a bestia dar cristiano
doppo avella assaggiata, 'a sora sposa,
capì che er bono... nun è solo umano!

Se prima è stato 'n piatto popolano
riservato a' classe macellaria
da quarche tempo, sembrerà 'n po' strano...
è 'r fiore all'occhiello dela culinaria!

-Pija 'n par de chili de coda de vitella
metti l'ojo ner coccio dela nonna
si nun ce l'hai... vabbene 'na padella
fai colori' mezza cipolla bionna

butta la coda quanno s'è appassita
rosola tutto a foco moderato
sfuma cor vino (abbasteno du' dita)
er sellero lo metti sminuzzato

er pommidoro... mejo la passata
sale, peperoncino (in abbondanza)
fai coce fino a quanno è spappolata...
...è na ricetta pe' riempi' la panza!

Poesia di Sabrina Balbinetti

giovedì 10 novembre 2011

W I Passatelli

 
I passatelli sono un piatto semplice negli ingredienti , ma proprio per questo richiedono una grande abilità dell' arzdora ( L’Azdora o Arzdora era una vera colonna portante della famiglia e, non a caso, sfogliando il dizionario di dialetto romagnolo scopriamo che in italiano Azdora significa: Reggitrice, massaia, colei che presiede al governo della casa. La parola “reggitrice” richiama proprio questa funzione di sostegno.) affinché l'impasto sia della giusta consistenza per poi poterne ricavare, attraverso l'apposito strumento con disco forato a manici laterali chiamato "e fér", il ferro,  piccoli cilindretti da cuocere in brodo.  L'elemento caratterizzante per fare i passatelli è costituito appunto dal "e fer", strumento di ferro simile allo schiacciapatate, di forma concava , con fori, dotato di due manici laterali per schiacciare con forza sull'impasto fino a farlo fuoriuscire dai fori con la tipica forma. Si chiamano passatelli proprio perché prendono la forma particolare passando dai buchi dello specifico strumento, chiamato anche stampo. In passato i passatelli erano la minestra delle feste e delle grandi occasioni come la  Pasqua, l' Ascensione, i battesimi, le cresime ed i matrimoni; a Natale invece venivano sostituiti dai cappelletti in brodo.
I passatelli erano considerati un piatto pregiato in quanto venivano fatti con pane bianco; la ricetta prevedeva che pangrattato e parmigiano venissero utilizzati in egual misura, ma nelle case dei ricchi prevaleva il parmigiano mentre, nelle case dei poveri prevaleva il pane.
Per ottenere un buon passatello bisogna usare pane comune bianco, ben secco e grattuggiato finemente. Per rendere l'impasto più morbido può essere utilizzato midollo di bue tritato ( alcuni usano come varianti semolino o una manciata di farina). Gli ingredienti vanno amalgamati con cura, fino ad ottenere un impasto compatto e di buona consistenza affinché, premendo il composto con "e fer", si riesca a farlo fuoriuscire dai fori  dando luogo alla tipica minestra  di forma cilindrica con diametro di circa 4-5 millimetri e lunghezza 8-10 centimetri,
di colore giallognolo ed aspetto rugoso.

Ricetta tradizionale dei passatelli

Ingredienti:

70 grammi di pane gratuggiato
1 Uovo
30 grammi di Parmigiano gratuggiato
noce moscata a piacere
Scorza di limone gratuggiata a piacere
Brodo di carne

Preparazione:

Impastare assieme tutti gli ingredienti prestando attenzione  alla consistenza dell' impasto che dev'essere compatto e quindi né troppo morbido nè troppo duro; utilizzando il ferro tradizionale per passatelli  l' impasto dovrà essere un po più morbido, usando invece il pressa patate dovrà essere un po più duro. L' impasto deve essere preparato con largo anticipo,  non meno di due ore prima: solo il tempo e ripetute re-impastate permettono infatti  l'intimo legame dei componenti e la preparazione di  un composto che dia vita a passatelli rugosi e abbastanza consistenti da non disintegrarsi nel brodo. Sia che venga utilizzato il ferro tradizionale sia che venga usato il pressa patate, bisogna premere con forza  in modo da creare tanti lunghi cilindretti di circa 5 millimetri di diametro ed 8-10 centimetri di lunghezza. Questa operazione va fatta sulla pentola in cui il brodo di carne, precedentemente preparato, sta bollendo, in modo che la pasta vi cada dentro direttamente. Il bollore del brodo deve però essere leggero  per non romperli. Quando il brodo bolle ed i passatelli affiorano,  togliere la pentola dal fuoco, mettere nei piatti  e  servire i passatelli immediatamente.





mercoledì 2 novembre 2011

Consigli dai birrifici


Con questa musica , la birreria artigianale Turan , consiglia , la birra Sonica, una Ale dorata ad alta  fermentazione , con gradazione alcolica di 4,9 ed una temperatura di servizio di 8/10.

domenica 30 ottobre 2011

La mia Senigallia

Ed ora vi ammorberò un po' , con un post lungo 1 km , tutto sulla mia città ! Contenti !!!

« La città di Sinigaglia da questa radice de' monti si discosta poco più che il tirare d'uno arco, e da la marina è distante meno d'uno miglio. A canto a questa corre un picciolo fiume, che le bagna quella parte delle mura che in verso Fano riguardano. La strada per tanto che propinqua a Sinigaglia arriva, viene per buono spazio di cammino lungo e monti, e giunta a el fiume che passa lungo Sinigaglia, si volta in su la man sinistra lungo la riva di quello; tanto che, andato per spazio d'una arcata, arriva a un ponte el quale passa quel fiume e quasi attesta con la porta ch'entra in Sinigaglia, non per retta linea ma transversalmente. Avanti a la porta è un borgo di case con una piazza, davanti alla quale l'argine del fiume da l'uno de' lati fa spalle. »
 ( Niccolò Machiavelli ) 
Senigallia o anche Sinigaglia (S'nigaja in gallico marchigiano), è un comune italiano di 45.106 abitanti[3] della provincia di Ancona nelle Marche, secondo della provincia per numero di abitanti dopo il capoluogo, nonché il sesto più popolato della regione.
È una delle principali località turistiche delle Marche, richiamante visitatori da ogni parte d'Italia e d'Europa, anche grazie alla famosa spiaggia detta "di velluto". Dal 1997 Senigallia si fregia ininterrottamente della Bandiera Blu, il riconoscimento che la FEE (Foundation for Environmental Education) rilascia alle località che garantiscono qualità delle acque di balneazione, attenzione alla gestione ambientale, informazione all'utente, servizi e sicurezza in spiaggia.
La zona di Senigallia costituisce il confine linguistico fra i dialetti gallo-italici e quelli italiani mediani

Breve storia di Senigallia

Il nome ricorda l'antica origine della città che la tradizione vuole fondata da un mitico "Brenno", condottiero dei Galli.
Prima colonia romana sull'Adriatico, Senigallia conosce momenti di grande fortuna e di profonda decadenza.
La sua rinascita certa è databile alla metà del XV secolo, quando Sigismondo Pandolfo Malatesti la fortifica e ripopola il suo territorio. Dopo la sua sconfitta ad opera di Federico da Montefeltro, la città viene data in vicariato ad Antonio Piccolomini dal papa Pio II e, in seguito ad alterne vicende, concessa da Sisto IV a suo nipote, Giovanni Della Rovere, destinato a sposare Giovanna, figlia di Federico da Montefeltro al quale il pontefice ha conferito, in quello stesso anno, il titolo di duca Giovanni, l'anno dopo, è anche nominato Prefetto di Roma e riceve in eredità dal cugino Leonardo il Ducato di Sora.
I ventisette anni del governo dei Della Rovere, che muore il 6 novembre 1501, segnano un periodo particolare nella storia di Senigallia: l'unico in cui la città è capitale di uno Stato che il "principe nuovo" crea nelle sue strutture fondamentali, dotandola di Statuti e di Catasti e ripensando l'assetto urbanistico, non solo con una più funzionale cinta muraria e con una più potente rocca, fulcro delle difese a mare, ma anche con lavori di bonifica della zona paludosa delle Saline, di arginatura del fiume Misa, con spazi verdi e "mattonando e saligando tutte le strade".
Giovanni ha a sua disposizione gli architetti di Federico da Montefeltro: Gentile Veterani progetta il rivellino; Luciano Laurana struttura il corpo centrale della Rocca nel quale ricava appartamenti che accolgano la corte in caso di emergenza ed effettua anche il collegamento con la piazza antistante; Baccio Pontelli realizza i quattro massicci torrioni che inglobano la parte residenziale.
Signore di una piccola corte, segnata dall'austerità dei costumi e da una profonda religiosità, fa progettare da Baccio Pontelli per Senigallia il Convento e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Egli non vedrà la fine dei lavori della complessa struttura, iniziata nel 1491, certamente destinata ad essere la tomba di famiglia e, forse, edificata per sciogliere il voto fatto alla Madonna e a San Francesco per ottenere la grazia di un figlio maschio. Francesco Maria nasce nel 1490 e, per l'estinzione della casata dei Montefeltro, diventa duca di Urbino nel 1508, primo della dinastia roveresca destinata a durare fino al 1631.
Città ricca, continua la sua espansione dotandosi, nel XVI e nel XVII secolo, di altri monumenti tra i quali: il Palazzo comunale, il Palazzo del Duca, la Chiesa della Croce, ove è conservata la Deposizione di Federico Barocci, mentre dello stesso periodo è la bellissima Visita a Sant'Anna del Guercino, conservata nella Chiesa di San Martino. In età pontificia si trasforma da città-stato a città-mercato, anche nelle strutture architettoniche: i Portici sul lungofiume sostituiscono le potenti mura volute da Guidobaldo II a metà del XVI secolo. Quattordici consolati esteri proteggono gli interessi dei mercanti che accorrono nei giorni della celebre Fiera franca della Maddalena, mentre nel XIX secolo essere patria del papa Pio IX consente alla città di Senigallia di vivere ancora da protagonista nella storia.
Nei primi decenni del '900 si afferma l'immagine di Senigallia come sede privilegiata del nascente turismo balneare. Un monumento celebrò in modo splendido questa vocazione della città, la Rotonda a Mare inaugurata nel 1933.

La Cucina

Un giovane letterato e gastronomo, scrivendo su un quotidiano nazionale, ha citato Senigallia “ fra le capitali della ristorazione italiana ”.
Fra i cento e più locali cittadini, almeno una quarantina compaiono nelle più note guide all’ospitalità. Il segreto di tanto successo, grazie anche ad una scuola alberghiera di chiara fama e indubbio prestigio, si deve a un’offerta che risponde alle richieste di tutti i tipi di pubblico.
Infatti, dalla pizzeria al bistrot, dal ristorantino sul mare alle più formali tavole d’albergo, dalle allegre enoteche alle osterie del buon tempo antico, non c’è che l’imbarazzo della scelta.


Il gourmet trova delizie inedite, alla famiglia non mancano i menù gustosi ed economici, il pesce è fresco ed invitante ma chi non lo ama può gustare i buoni cibi di campagna.
I cuochi di Senigallia possono contare soprattutto su alimenti sempre freschi e sanno rispettare le tradizioni, ma le coniugano con sapienti e moderne interpretazioni.

Città di mare , trova le sue radici gastronomiche nel pescato quotidiano dell’Adriatico: alici, sardine, sgombri, suri, triglie, moscardini, seppie, sogliole, pannocchie, cefali, vongole, cozze. La grigliata e il fritto misto dell’Adriatico sono i due piatti di tradizione marinara sempre presenti sulla tavola senigalliese. La grigliata deve essere rigorosamente “sa la mollica”, ovverosia con pane grattugiato insaporito con aglio e prezzemolo fresco. Nel fritto misto non possono mai mancare le zanchette, i guattoli, la parazzola. Sontuoso e ormai abbastanza raro da trovare il brodetto senigalliese . La vera ricetta dei “portolotti” prevede l’utilizzo di 13 diversi tipi di pesce, lentamente cucinati con soffritto di cipolla, pomodoro (meglio il concentrato di pomodoro), aceto. Il brodetto è ormai presente in pochi ristoranti e, comunque, sempre su prenotazione.
Sia la grigliata che il fritto misto dell’Adriatico non possono che non essere accompagnati dai “bianchi” delle colline prospicienti Senigallia: il Verdicchio dei Castelli di Jesi e il Bianchello del Metauro .
Saporita e naturale la “cucina di terra”. Tra i piatti della tradizione contadina, in estate è una vera sorpresa scoprire l’ oca arrosto e, per il pranzo di Natale, la salsiccia matta , ormai prodotta su ordinazione solamente da alcune macellerie del centro storico. A Senigallia è possibile apprezzare anche una gustosissima porchetta lentamente cotta al forno a legna e insaporita con finocchio selvatico. Per la porchetta si raccomanda un buon bicchiere di Lacrima di Morro d’Alba , il rosso delle nostre colline, mentre per gli arrosti di carne il vino consigliato è il Rosso Conero , un prezioso Montepulciano impregnato con la salsedine dell’Adriatico.
E’ tipica della tradizione senigalliese la pizza con il formaggio che, in passato, veniva preparata per le festività pasquali. E’ il trionfo del formaggio pecorino: grattugiato quello secco, a pezzetti quello fresco.
Il dolce della tradizione, a tavola, è il ciambellone . A Natale è abitudine accompagnare questo dolce con il vino di visciole , una bevanda dolce preparata con visciole macerate in zucchero e vino rosso (generalmente Sangiovese). Durante il periodo della vendemmia tutti i forni della città preparano le ciambelle con il mosto , profumate all’anice.
Senigallia ha anche una lunga tradizione olearia. Le colline prospicienti il mare sono infatti particolarmente vocate per la coltivazione dell’ulivo, da cui si ricava un apprezzatissimo olio monovarietale Raggia proposto da diversi piccoli produttori locali.
Negli ultimi anni si è dato avvio ad un importante progetto di valorizzazione del salame di Frattula , un prodotto di filiera con un rigido disciplinare che prevede esclusivamente l’utilizzo di suini allevati all’aperto su una ristretta area a nord della provincia di Ancona, comprendente anche una porzione del comune di Senigallia (Scapezzano e Roncitelli).
Senigallia riserva un’attenzione particolare anche alla filiera del pane, dalla semina fino alla sua produzione e commercializzazione. Il “ Pangallo ” è una importante esperienza di valorizzazione della filiera locale. Prodotto con grani coltivati a Senigallia e in Comuni limitrofi e lavorato in molini a pietra ancora attivi nel nostro territorio, il “Pangallo” viene prodotto artigianalmente da fornai di Senigallia e distribuito in diversi punti vendita della città. Un esempio virtuoso che premia il lavoro svolto da quanti hanno creduto su “ Pane Nostrum ”, la più importante manifestazione italiana di valorizzazione del pane che si svolge - ogni anno – nel terzo week-end di settembre.
Da oltre venti anni opera a Senigallia la cooperativa “ La Terra e Cielo ”, una delle più importanti realtà nazionali nel settore dell’agricoltura biologica. Sono famose anche all’estero le premiatissime paste realizzate con il grano duro a coltivazione biologica delle colline senigalliesi.

RICETTE MODERNE SENIGALLIESI

Purea di patate con amatriciana e sgombro grigliato

Ingredienti
Sgombri da 300 g. n. 2
Patate 1 Kg.
Latte 200 g.
Burro 50 g.
Parmigiano/pecorino grat. 30 g.
Guanciola 40 g.
Cipolla bianca n. 2
Peperoncino
Olio extra vergine d’oliva q.b.
Sale e pepe di mulinello
Pelati 400 g.
Erbe aromatiche

Procedimento
- privare gli sgombri del loro interiore, togliere le lische, sciacquarli e farli scolare. Metterli in un contenitore capace a marinare con aneto e maggiorana ed un filo di olio extra vergine.
- mettere a bollire in acqua le patate di egual misura per il purea di patate.
- tagliare la cipolla ad anelli sottili, tagliare la guanciola in julienne. Procedere nella salsa amatriciana tostando la cipolla in una padella con olio e peperoncino, aggiungere la pancetta tagliata, cuocerla fino a renderla croccante, aggiungere i pelati, cuocere aggiustando di sale e pepe.
- sbucciare le patate precedentemente cotte, passarle al passaverdure, mantecarle con latte, burro e formaggio grattugiato. Mantenere in caldo a bagnomaria. 
-  cuocere lo sgombro alla griglia dalla parte interna per pochi minuti aggiustando il sapore.
- mettere nel piatto una base di purea lavorato con il sac a poche, mettere la salsa amatriciana caldissima e sopra appoggiarci lo sgombro. Servire caldo con un filo di olio extra vergine e del pepe di mulinello.

Gnocchi di patate con ragù azzurro

Ingredienti per il ragù
olio extravergine di oliva 60 g
cipolla tritata 10 g
aglio 1 spicchio
peperoncino n. 1
prezzemolo tritato
1 rametto di timo
pendolini rossi tagliati a pezzetti 150 g.
acciughe fresche tagliate a cubetti 50 g.
sgombro fresco tagliato a cubetti 50 g.
palamite tagliato a cubetti 30 g.
cefalo tagliato a cubetti 30 g.
Per gli gnocchi
patate 300 g.
burro 50 g.
parmigiano 10 g.
farina 100 g.
sale q.b.
un profumo di noce moscata
un tuorlo d’uovo

Procedimento
- Cuocere le patate, farle raffreddare e sbucciarle.
- Spremerle con l’apposito strumento.
- Incorporare la farina, le uova, il burro, il sale e la noce moscata.
- Ricavare delle codine e poi gli gnocchi.
- Insaporire i pesci con sale, pepe, prezzemolo e timo.
- Far rosolare la cipolla con l’aglio e il peperoncino.
- Aggiungere i pendolini e regolare il sapore.
- Cuocere gli gnocchi in abbondante acqua salata.
- Scolarli, passarli in padella, aggiungere la salsa e i pesci conditi, fateli saltare per un minuto circa e servite in un piatto fondo con una guarnizione di timo.

Albanella con Pesce Azzurro e Molluschi

Ingredienti
10 alici
2 sgombri piccoli
200 g di calamari
1 mugella
2 triglie
4 raguse
3 pomodori freschi
100 g di brodo di pesce
200 g di acqua delle vongole
4 fette di pane tostato
50 g di aceto
prezzemolo
timo
fi nocchio
aglio e cipolla
1/2 bicchiere di Verdicchio
olio extravergine di oliva q.b.
sale e pepe di mulinello
peperoncino
4 vasetti in vetro (albanella)

Procedimento
Pulire il pesce, fi lettare e diliscare i diversi pesci. Bollire le raguse per 20 minuti in acqua acidulata. Cubettare i pomodori, tagliare la cipolla ad anelli. Con le lische dei pesci ricavarne un brodo. Far dorare la cipolla con olio e uno spicchio d’aglio con del peperoncino. Aggiungere i calamari puliti e tagliati con prezzemolo tritato, far cuocere per alcuni minuti. Bagnare con vino e far evaporare, aggiungere acqua delle vongole, aggiustare di sale ed aggiungere del brodo di pesce. Cuocere il resto del pesce per pochi minuti in padella con olio aggiustandoli di sapore. Le raguse bollite (circa 30 minuti) poi condite con sale e pepe. Mettere i pesci con la salsa leggermente emulsionata con dell’olio d’oliva nei contenitori in vetro distribuendola accuratamente, aggiungere dei pomodorini tagliati in 2 parti un po’ di peperoncino, un rametto di timo e fi nocchio selvatico. Chiudere e riscaldare a bagno maria con un panno per evitare che il vetro sia a contatto con il metallo e partendo da acqua fredda (circa 10 minuti di bollore). Servire con un tovagliolo sul piatto per evitare che sia a contatto con la ceramica. Scuotere l’albanella prima di gustarla. Accompagnare con un crostino di pane e un fi lo di olio extravergine al momento dell’apertura del vaso.


Centro della fotografia

E’ con Giuseppe Cavalli , uno dei grandi della fotografia del ‘900 nonché ideatore e direttore artistico di quel privilegiato laboratorio di formazione fotografica che è stato il Gruppo Misa , che nacque la particolare vocazione di Senigallia per la fotografia.
E’ attraverso il suo insegnamento che si formò, a partire dal 1953, una giovane ed appassionata generazione di artisti senigalliesi che concepiva la fotografia come una creazione, attingendo alle sue forme ed ai suoi colori per esprimere il proprio universo poetico.
Giovani talenti come Ferruccio Ferroni e Mario Giacomelli si affermarono all’interno del Gruppo Misa.
In quel gruppo – ricordava spesso Mario Giacomelli – ognuno parlava il proprio linguaggio, con umiltà di fronte al soggetto, liberi da ideologie politiche, pensando all’amicizia, al dialogo, al rispetto di ognuno di fronte alla realtà.
Senigallia città della fotografia rappresenta un’idea forte della politica culturale che l’Amministrazione Comunale ha cercato di sviluppare in questi ultimi anni. Un progetto che si sta attuando attraverso tre filoni principali di interventi. In primo luogo si è lavorato per sviluppare la potenzialità di Senigallia ad ospitare mostre dei grandi maestri della fotografia italiana ed internazionale, in grado di richiamare un pubblico di appassionati. Un altro obiettivo verso il quale si lavora è quello di attirare e promuovere talenti fotografici, riservando la massima attenzione verso tutto ciò che di nuovo si muove nel panorama artistico nazionale ed internazionale; e poi naturalmente c’è la grande eredità artistica e culturale di Mario Giacomelli. Attraverso le esposizioni delle sue foto nelle principali città del mondo (il 2007 è l’anno del grande tour americano della civica collezione Giacomelli con esposizioni a Los Angeles, Chicago e New York ) riusciamo non soltanto a valorizzare l’opera di uno dei maestri della fotografia di tutti i tempi, ma anche a veicolare l’immagine di Senigallia nel mondo.

La città di Giacomelli

Mario Giacomelli , scomparso a Senigallia il 25 novembre 2000, è considerato da parte di numerosi critici, il più grande fotografo italiano della seconda metà del ‘900. Le sue opere sono conservate nei musei di tutto il mondo.
Nato a Senigallia nel 1925, la sua infanzia è subito segnata dalla perdita prematura del padre avvenuta quando lui aveva appena nove anni. Alla fotografia si avvicina nel 1952 dopo una serie di esperienze da autodidatta in pittura e poesia e due anni dopo entra a far parte dell’Associazione senigalliese “Misa”. Nel 1963 una sua fotografia, della serie Scanno, venne selezionata per la collezione del Museo d’Arte Moderna di New York , coronando il lavoro di rottura degli schemi tradizionali iniziato da Mario Giacomelli nell’immediato dopoguerra. Mario Giacomelli era senigalliese e marchigiano fino in fondo, legato alla sua città, ai suoi ritmi, alle sue tradizioni.
Anche nella sua espressione artistica egli si lega alla sua terra, e lo fa con i paesaggi segnati dall’uomo, con pieghe come rughe che l’uomo ha nelle sue mani, paesaggi che parlano di volti e di cose che abitano nell’anima.
La fotografia per Giacomelli era soprattutto amore, l’immagine che racconta una poesia dell’anima che continua ancora a stupirci e a commuoverci.

Rarissima immagine di senigallia con la neve















































lunedì 24 ottobre 2011

Halloweennnnnnnnnnnnn


Breve storia

L'Irlanda è la patria originaria di Halloween, anche se generalmente viene conosciuta come una tradizione americana.
Questa festa risale ai tempi dei Celti. Essi infatti celebravano il 31 ottobre l'ultimo giorno dell'estate e la ricorrenza dei morti. Questo giorno veniva chiamato Samhain in quanto la notte del 31 ottobre e tutto il giorno del 1° novembre i druidi, loro sacerdoti, onoravano Samhain, signore delle tenebre. Una leggenda narra che tutte le persone morte l'anno precedente tornassero sulla terra per cercare di rientrare nei corpi dei vivi. Nei villaggi si spegnava ogni focolare per evitare che gli spiriti maligni vi soggiornassero mentre i druidi si incontravano sulla cima di una collina sotto una quercia per accendere il nuovo fuoco offrendo sacrifici propiziatori di sementi e animali.
Dopo i sacrifici si festeggiava per 3 giorni, dal 31 ottobre al 2 novembre, e ci si mascherava con le pelli degli animali uccisi per ingannare gli spiriti: così mascherati i druidi ritornavano al villaggio illuminando il loro cammino con lanterne costituite da cipolle intagliate al cui interno erano poste le braci del fuoco sacro.
I Romani quando invasero la Britannia (43 a.C.) onoravano negli stessi giorni Pomona, dea dei frutti e dei giardini, offrendole frutti (soprattutto mele) per propiziare la fertilità futura. Col passare degli anni il culto di Samhain e di Pomona si unificarono, l'usanza dei sacrifici fu abbandonata, e al suo posto si bruciavano effigi. La pratica di mascherarsi da fantasmi, streghe e di offrire dolci divenne parte del cerimoniale.
Dopo l'invasione dei Romani i riti Cristiani sostituirono quelli pagani. I Cristiani festeggiavano il 1° novembre il giorno dei Santi, All Allows day.
La notte del 31 ottobre era All Allows Eve da qui dunque il nome di Halloween.
Gli immigrati irlandesi portarono questa festa in America nel XIX secolo e sostituirono l'originale rapa con le zucche, più facili da reperire e più semplici da intagliare, per fare le lanterne. È da qui che la zucca divenne una parte essenziale di questa festa.
Con il passare dei secoli, ciò che maggiormente è rimasto dell’originario spirito di Halloween è l'aspetto lugubre dell'aldilà, con i fantasmi, i morti che si levano dalle tombe, le anime perdute che tormentano chi in vita aveva arrecato loro danno. Un aspetto che tuttavia viene esorcizzato dalle maschere e dagli scherzi caratteristici di questa festa.

Piccolo menù

Palline fritte di zucca

Ingredienti per 6 persone

300 gr di polpa di zucca
160 gr di farina
5 uova intere
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
un pizzico di noce moscata
un amaretto
lievito in polvere
sale q.b.

Procedimento
Cuocete la zucca a vapore e, quando tenera al tatto, passatela al passaverdure e lasciatela intiepidire.
In una ciotola amalgamate la purea di zucca con
l' uovo, i 2 tuorli, il parmigiano, la farina, l'amaretto sbriciolato, la noce moscata e mezza bustina di lievito. Mescolate bene e, per ultimi, aggiungete i 2 albumi montati a neve ben ferma con un pizzico di sale.
Riscaldate l'olio, circa 1 litro, nella apposita casseruola dei fritti fornita di cestello. Quando è ben caldo ma non bollente prendete con un cucchiaio un po' dell' impasto di zucca e, aiutandovi con un altro cucchiaio, fate cadere la pallina nell'olio. Fate friggere poche palline per volta fino a quando risulteranno belle dorate. Scolatele su della carta assorbente e servite subito.

Ravioli di zucca

Ingredienti per 4 persone

Per la pasta:
300 g di farina
3 uova
Per il ripieno:
500 g di zucca
80 g di amaretti
80 g di grana padano
80 g di mostarda di mele
noce moscata
sale e pepe q.b.

Procedimento
Preparate una pasta fine con la farina, le uova e dopo averla lavorata a lungo (con l’impastatrice il lavoro diventa facile e veloce) lasciatela riposare per 30 minuti.
Preparate nel frattempo il ripieno cuocendo la zucca a forno moderato per circa 30 minuti. Fatela raffreddare, passatela al setaccio e raccoglietela in una terrina. Mescolatela con gli amaretti sbriciolati, la mostarda sminuzzata, il grana padano, il sale, il pepe e la noce moscata. Lavorate bene il composto in quanto deve risultare ben asciutto.
Con l'aiuto del mattarello o meglio ancora con l' aiuto della stirasfoglia stendete 4 sfoglie sottili; mentre preparate una sfoglia tenete l'altra pasta coperta con un canovaccio umido in modo che rimanga abbastanza morbida e non si asciughi. Ricavate dal ripieno tante palline grandi come una nocciola e sistematele sulla sfoglia distanziate tra di loro. Ricoprite con l'altra sfoglia premendo bene fra un ripieno e l'altro, quindi con la rotellina dentata ricavate i ravioli di forma quadrata. Man mano che sono pronti, disponeteli su un piano infarinato coprendoli con un canovaccio. Lessate i ravioli in abbondante acqua salata per 5 minuti, scolateli con la schiumarola, metteteli in una ciotola e conditeli con burro fuso e grana padano grattugiato.

Sformatini di zucca

Ingredienti per 6 persone

600 g di zucca lessata
70 g di parmigiano grattugiato
4 uova intere
200 ml di latte
300 ml di panna
sale e pepe q.b.
noce moscata
burro

Procedimento
Schiacciate la zucca in modo da ottenere una purea ben asciutta, mescolatela alle uova sbattute con il latte, con la panna e aggiungetevi il parmigiano, il sale, abbondante pepe e noce moscata. Imburrate bene delle formine di alluminio, versate in ognuna un po' di crema di zucca: deve riempirle per 3/4.
Fate cuocere per circa 30 minuti a bagnomaria il tempo necessario a che gli sformatini si rassodino bene. Fateli raffreddare per qualche minuto prima di sformarli. Serviteli ben caldi e, se lo desiderate, bagnateli con un filo d'olio aromatizzato col basilico.

Fonte
mangiare bene.com

venerdì 21 ottobre 2011

Cibo e Libri

Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo
Massimo Montanari
Laterza editore

Già il titolo è davvero accattivante, poi la sua copertina colorata con tutti quei begli attrezzi uno affianco all’altro è una vera tentazione per gli amanti della cucina. Ma la decisione immediata e compulsiva di acquistarlo si materializza girandolo e leggendo il retro di copertina che riporta una frase dell'autore profondamente vera:
"La cucina non è solo il luogo in cui si progettano sopravvivenza e piacere. La cucina è anche il luogo ideale per allenare la mente"
L'autore è un professore universitario di storia medioevale e cultura dell'alimentazione che in questo libro con uno stile fresco e scorrevole racconta storie antiche e moderne intorno al cibo. Scorrendo queste pagine si impara come quasi tutti gli alimenti che normalmente usiamo nelle nostre cucine hanno una storia da raccontarci, ma che spesso ignoriamo. Così per esempio si scopre che l'abbinamento prosciutto e melone, nasce nel medioevo a causa dei principi ippocratici e galenici in voga al tempo per cui i cibi freddi ed umidi come la frutta si credeva fossero pericolosi per la salute, e quindi andavano bilanciati da cibi caldi e secchi. Il melone umido e fresco per eccellenza ritenuto pericolosissimo per la salute (gli è stato imputato anche la morte di un Papa) veniva quindi accompagnato dal prosciutto, cibo caldo e non umido. Per lo stesso motivo nascono altri abbinamenti golosi e classici quali pere e formaggio o l'abitudine che spesso abbiamo a fine pasto di "affogare" le pesche in due dita di vino rosso.
Il libro è pieno di interessanti riflessioni su come il cibo abbia un piano non secondario nella storia dell'uomo e di come riflette, ed a volte anche influenza, la società (la carne cibo di aristocratici si suddivide, la minestra cibo democratico dei ceti poveri, si condivide).
Chiunque leggerà questo libro non si domanderà più preparando i tortellini ricotta e spinaci perchè si chiamano "di magro" e sicuramente avrà un occhio di riguardo in più nel preparare una macedonia di pesche.

Francesca Pazienza

Fonte
mangiare bene.com

giovedì 20 ottobre 2011

Un buon dolce autunnale


Creme Bruleé alla zucca

Ingredienti per 4 persone

6 Tuorli D'uovo
50 Cl di Panna Fresca
250 g di Zucchero Di Canna
500 g di Zucca Lessata
Noce Moscata
Cannella
Sale

Ricetta
Passare la zucca al setaccio. Battere i tuorli con metà zucchero poi unire la panna, 2 cucchiaini di cannella, poca noce moscata, la zucca e una presa di sale Dividere la crema in 6 pirofiline e infornare a 180 gradi per 30 minuti. Levare dal forno e far raffreddare in frigo almeno 3 ore. Prima di servire spolverizzare con lo zucchero rimasto e passare sotto il grill del forno per farlo caramellare. Servire subito.

lunedì 17 ottobre 2011

Ottobre , tempo di .....Tartufi bianchi...

Insalata Di Tartufi Bianchi E Ovoli Reali

Ingredienti per 5 persone

500 g Funghi Ovoli Reali
50 g Tartufi Bianchi
2 Uova
2 Limoni , 100 g Olio D'oliva Extra-vergine
                                          Sale , Pepe
Preparazione

Liberare gli ovoli della pellicola bianca e affettarli finemente. Assodare le uova, lasciarle raffreddare, sgusciarle e separare i tuorli dagli albumi, tritare i tuorli con una forchetta, deporli in una terrina, aggiungere il succo dei limoni, l'olio, il sale ed il pepe, ottenere una salsa frullando a mano tutti gli ingredienti. Mettere gli ovoli affettati in un piatto di portata, ricoprire
con fettine di tartufo bianco e condire con la salsa appena preparata.

venerdì 14 ottobre 2011

Omaggio alla mia terra

LE MARCHE

Quella della Marche è una confederazione di cucine. Posta al centro della penisola, s’identifica con l’antico territorio Piceno (IX – IV sec. a.C.), presentando ancor oggi una pluralità di dialetti, consuetudini e folclore. Gli usi gastronomici del Pesarese e del Montefeltro sono strettamente imparentati con quelli della confinante Romagna (minestre), così pure i piatti dell’ultimo lembo meridionale sono largamente influenzati da quelli dell’Abruzzo. Due sono gli aspetti della cucina locale corrispondenti alle caratteristiche geografiche della regione: quello dell'entroterra e quello marittimo.
L'aspetto contadino della cucina marchigiana è dominato dai funghi, dall'uso delle olive e dal tartufo. Quest'ultimo è il condimento sublime dei taglierini di fattura casalinga, proveniente dalle località del Pesarese, dell’Ascolano e del Maceratese, oggi garantisce un’importante risorsa integrativa all’economia rurale grazie al mercato di Acqualagna, dove si concentra un terzo dell’intera produzione annuale italiana. La gastronomia delle Marche, che possiede un vero e proprio gusto nel campo dei cibi imbottiti, ha una delle pietanze più rappresentative nelle olive all'ascolana, il cui cultivar era già apprezzato dai Romani.
I piatti forti dell’entroterra sono a base di carne di maiale, tra i quali spiccano la saporitissima porchetta, e il cotechino della fortezza di San Leo, che si dice mangiò anche Cagliostro quando vi finì rinchiuso.
Sulla costa delle Marche invece si può gustare una grande quantità di prodotti ittici. Piatto simbolo è il “brodetto di pesce”, interpretato diversamente in ogni porto, dal rosso (pomodoro) del Pesarese al giallo (zafferano) dell’Ascolano. In uso tra il fiume Conca (confine Romagna) e il Tronto (prima degli Abruzzi) c’è un il “potacchio”, derivante dal francese “potage”, che in quest’area non designa una zuppa bensì un intingolo ristretto maritato a stoccafisso, pollo o coniglio.
La cucina Anconetana e quella Maceratese esprimono il piatto unificante la regione: i vincisgrassi. ( Vedere post precedente )

Maccheroncini di Campofilone e gli altri marchigiani

Le Marche sono una regione dalle molte tradizioni e la pasta fatta in casa ha grande rilievo. A Pesaro e nel Montefeltro troviamo i “cappelletti”, tradizionale piatto dei giorni di festa, simili all’omonimo formato romagnolo ma riempiti di carne bovina, suina, cappone e tacchina. Non mancano poi tagliatelle, tagliolini, pappardelle, maltagliati, fatti di tutte le misure e tutti gli spessori per adattarsi al meglio all’incontro con i diversi condimenti, dai sughi preparati con il pesce fresco fino al tartufo.
Inoltrandosi nel territorio del Montefeltro troviamo i “passatelli” (serviti in brodo o asciutti) e le “millefoglie”, grossi quadrati di sfoglia all’uovo utilizzati prevalentemente nei pasticci al forno.
La tradizione rustica si sente ancora nelle “cresc’ tajat”, ruvidi quadrelli di sfoglia a base di farina di mais, ottimi con fagioli, ceci e fave.
La pasta senza l’uovo, tagliata lunga a sezione quadrata o rettangolare si manifesta nei “tajuli pilusi” (tagliolini pelosi), cosi indicati per il velo superficiale che si forma dopo la cottura, causato della scarsa coesione dell’impasto.
Anche la pasta di produzione industriale trova nelle Marche grande attenzione: accanto ad aziende prestigiose troviamo realtà più piccole ma altamente qualificate, come i numerosi pastifici che producono pasta al farro, cereale la cui coltivazione è molto diffusa nella regione.
Per finire segnaliamo i due tipi di pasta più noti: i “vincisgrassi” (ricchissimo pasticcio), e i lunghi e sottilissimi “maccheroncini di Campofilone”. Questi ultimi, tagliati con coltelli affilatissimi e noti fin dal ‘400 come “maccheroncini fini fini”, dopo la cottura hanno un’elevata porosità perchè preparati con molte uova (dieci per un kg semola grano duro), risultando così ottimi sia in brodo che asciutti.

Salumi marchigiani

Tra i vecchi dei paesi dell’entroterra marchigiano è ancora vivo il ricordo della “pista” (macellazione del suino), autentico rito sacrificale collettivo, che si svolgeva nelle campagne, durante il quale del maiale non si buttava via niente.
In questa terra collinare ammantate di vitigni, colture e oliveti, l’arte del salume ha preservato un forte legame con la radicata cultura contadina.
Accanto alla produzione del Prosciutto di Carpegna, del Salame di Fabriano, della Soppressata di Fabriano, e della Lonza (collo maiale disossato), nelle Marche è diffusa una lavorazione artigianale che talvolta è finalizzata al solo autoconsumo.
Segnaliamo il Ciarimbolo (di forma nastriforme, fatto con le budella del suino bollite, condite e asciugate lentamente al fuoco), i Ciauscoli o Ciauvuscoli (dal latino “cibusculum” piccolo cibo prezioso, crema di salame da spalmare), il Mezzofegato (salsiccia matta preparata con scarti della lavorazione del maiale), la Salsiccia di fegato e la Spalletta.
I salumi marchigiani sprigionano le inconfondibili note dell’aglio e del finocchio, aromi rintracciabili anche nei sughi, nei ragù, nei ripieni e nelle carni in porchetta della tradizione gastronomica locale.

Crescia , filone e gli altri marchigiani

Le Marche sono una terra dove i pani, le focacce e i dolci lievitati creano le mille facce di una gastronomia che ha saputo utilizzare l'abbondanza di frumento. Ogni paese lo ha fatto a modo suo, sfruttando astutamente materie prime di volta in volta differenti, creando feste popolari e riti collettivi.
Già granaio dei latini, fertile produttrice di farro e successivamente di mais, questa regione trasforma ogni occasione in un momento di arte bianca: la vendemmia nei pani al mosto; la raccolta delle noci nel pan nociato; le festività religiose nei pani di Pasqua; la raccolta del grano nel pan dei mietitori.
-Crescia sfogliata di Urbino;
- Crescia maceratese : ha vari nomi gergali, ma è spesso chiamata pizza bianca. Originariamente veniva fatta una o due volte a settimana con l’impasto avanzato dalla preparazione del pane. In genere rotonda, presenta piccola infossature sulla superficie dovute alla pressione delle dita, che hanno la funzione di trattenere meglio l’olio. La crescia è condita comunemente con sale e olio, e a volte con rosmarino e cipolle. Varianti molto apprezzate: la crescia di granturco, la crescia con gli sgriscioli (ciccioli di maiale), e la la “caccia ‘nnanza (estrai prima), versione ascolana, che veniva cotta nel forno a legna prima dei filoni di pane, per verificarne la temperatura;
- Crostolo del Montefeltro : tipico dell’alto Montefeltro simile solo esteriormente alla piadina romagnola, e a gran parte delle focaccia di forma rotonda dell’area mediterranea, di origine rituale e simboleggianti il disco solare. L’impasto, cotto su una piastra d’argilla, si compone di farina di grano tenero, uova, sale, pepe, strutto, acqua, latte, bicarbonato e talvolta siero della lavorazione del formaggio. Un’antica sua variante, il crostolo di Urbania, viene ricavato dalla polenta che resta attaccata alle pareti del caldaio.
- Filone casereccio : rappresenta il simbolo della tradizione panificatoria di qualità delle Marche. Il peso d’ogni pezzo è di circa un chilo, la crosta dorata e la mollica spugnosa con alveoli distribuiti uniformemente.
- Filone integrale : la versione integrale del filone casereccio realizzata con farina ricca di crusca.
- Focaccia farcita : tipica delle aree interne ascolane, cotta il giorno precedente al suo consumo e ripassata in padella col lardo, è la versione “ricca” del classico pasto del contadino. Fatta con due sfoglie imbottite di verdure precedentemente lessate (erbe campo o altro a seconda della stagione). Sua variante più diffusa è il “chichì ripieno” (termine infantile per connotare una pizza), focaccia molto sottile arricchita da un po’ di strutto, e ripiena di alici, tonno, carciofi e olive verdi, sembra di origine ottomana o quantomeno molto somigliante al “lahmagiun” armeno.
- Pane di Chiaserna : dalle notevoli qualità organolettiche dovute alla favorevolissima posizione geografica e al clima temperato. Di lunga lavorazione, dal sapore leggermente acidulo, è un pane disponibile in pezzature da un chilo o cinquecento grammi, con mollica spugnosa dal colore bianco tendente al grigio e alveolatura regolare.
- Pane di farro : cereale di antichissima tradizione, uno dei simboli della civiltà dei Piceni, che lo utilizzavano nel rituale della “confarratio” (nome derivato dal cereale), scambio simbolico di un omaggio tra le famiglie dei promessi sposi. Il pane di farro, dal colore piuttosto scuro, e il pane di grano, hanno in comune la tecnica della loro preparazione.

Anicetti , Bostrengo e Visner

La dolciaria marchigiana presenta due elementi distintivi: l’anice e i fichi. L’anice, raccolta sui Monti Sibillini, viene utilizzata soprattutto per la preparazione dei celebri liquori che danno l’aroma a vari dolci fra i quali gli Anicetti (biscottini) e il Ciambellone.
I fichi sono l’ingrediente rilevante nell’impasto dell’arcaico Fristingo (assieme al miele e alla frutta secca), del caratteristico Torrone, o dell’insaccato dolce detto “Lonzino” (fatto con anice, rum, mandorle e noci).
Fra le “dolcezze” delle Marche, c’è anche da segnalare: il “Bostrengo”, il Visner, e gli Scroccafusi (dolcetti di carnevale).
Il Bustrengo (o bustrengo) è il dolce delle occasioni speciali, tipico delle zone montane, soprannominato “pulisci credenza” per la sua ricetta variabile basata su riso e farina di castagne.
Il Visner è una bevanda, sembra già prediletta da Federico da Montefeltro, chiamata anche vino di visciole (amarene). Veniva fatta dai contadini, cogliendo a fine giugno le visciole dalle piante selvatiche e mettendole a macerare nel vino. La sua delizia nasceva dal sovrapporsi del sapore del frutto alla trama del vino, e dall’intrecciarsi del dolce con l’amaro e l’acidulo. D’origine casalinga anche la ricetta ideata per ottenere un liquore dal Visner, preparato aggiungendo al vino di visciole, zucchero ed alcol.

Casciotta di Urbino Dop e altri marchigiani

Le Marche sono territorio di pastorizia d’antica tradizione, dove vedono la luce soprattutto formaggi di pecora.
Celebre simbolo della zona è la Casciotta, il cui nome deriva dall’antico termine “cascio”, variante linguistica territoriale del più diffuso “cacio”. La Casciotta d’Urbino è un formaggio dalle origini antiche. La storia riporta che veniva prodotto già ai tempi dei duchi di Montefeltro e Della Rovere che, dedicando particolare attenzione alla produzione casearia (come si evince dalle numerose norme delle “Costituzioni d’Urbino” che la riguardano), lo impiegarono come oggetto di commercio con Roma e con lo Stato della Chiesa. Le prime documentazioni scritte sull’utilizzo di questo formaggio fanno riferimento ai grandi convivi e banchetti di nozze dei nobili all’epoca del quindicesimo secolo. Nel 1545 nel “Commento alle Costituzioni del Ducato di Urbino” Solone di Compello segnala che i Duchi per la produzione della Casciotta incoraggiavano l’utilizzo del latte delle pecore locali, migliore di quello delle pecore maremmane, ma più scarso nei quantitativi; allo scopo i Duchi dimezzavano l’importo del pedaggio di transito delle pecore ai pascoli e le tasse sul trasporto del formaggio.
Anche Michelangelo Buonarroti lo apprezzava, soprattutto quello poco stagionato. L’artista per tutta la vita ebbe a che fare con la gente di Casteldurante. In particolare strinse legami molto profondi con Francesco Amatori (detto l’Urbino) e con la consorte di lui Cornelia Colonnelli, con cui ebbe un fitto rapporto epistolare accompagnato dall’invio di casciotte.
Ed ancora nel 1761 è il Cardinale Ganganelli, futuro Papa Clemente XIV, che da Roma ringrazia con una lettera l’Abate Antonio Tocci di Cagli per avergli inviato squisite casciotte.
La temperatura ideale di conservazione della Casciotta d’Urbino DOP è di 4-8 °C. Una volta riportata a temperatura ambiente, la Casciotta viene tradizionalmente consumata come formaggio da tavola, in abbinamento a salumi e pane di montagna. Può anche essere servita come piatto unico. Estremamente duttile in cucina, è impiegata come ingrediente nella preparazione di altre pietanze. A fine pasto, viene consumata in abbinamento con frutta caramellata o dolci. L’impiego della Casciotta d’Urbino in cucina ed a tavola sono determinati dal grado di maturità e quindi di sapore e morbidezza del formaggio: se particolarmente fresco, ad esempio, è più indicato nelle mantecature e nelle salse; se un po’ più consistente e mediamente maturo entra nelle farciture e nei ripieni. Agli antipasti ed ai primi delicati a base di Caciotta vengono generalmente abbinati vini leggeri, mentre a primi e secondi piatti dal sapore più deciso vini mediamente corposi. Come dessert, si sposa bene con vini dolci.
Nelle Marche oltre alla celebre Casciotta, vedono la luce anche altri pecorini: da quelli dei pascoli alti dei monti Sibillini, al pecorino di Monte Rinaldo ottenuto con caglio di agnello lattante, che prima di essere usato è fatto invecchiare alcuni mesi, e poi mischiato alle erbe del posto. Altri sapori misteriosi si sprigionano dall’area di Talamello dove il Formaggio di Fossa la fa da padrone per accompagnare paste in brodo, salse o confetture.
Prodotto solamente da latte vaccino intero è invece lo Slattato, formaggio fresco del quale si hanno testimonianze certe già nel ‘700, anche se è risaputo che alla corte dei Montefeltro i formaggi (tra i quali lo Slattato) venivano presentati nei banchetti e consigliati per sigillare lo stomaco.
L'unione di due elementi apparentemente inconciliabili, ovvero latte e limone, offre in questa regione il Cacio a forma di limone (o limoncello): formaggio a pasta fresca prodotto con latte ovino crudo, la cui crosta è ricoperta di scorza grattugiata di limone. Un Cacio Limoncello viene citato anche da Bartolomeo Scappi nella sua "Lista delle vivande" .
Infine ricordiamo che nelle Marche, per stagionare il formaggio, è molto praticato il tradizionale metodo di affinamento in botte, dove il prodotto viene immerso in strati alterni di foglie di noce e castagno, o coperto con le erbe aromatiche locali.

Conserve Marchigiane

La cultura contadina è ben radicata in questa regione collinare ricca di vigneti, oliveti e colture varie.
La gastronomia locale ha il profumo dell’aglio, del finocchietto, delle scorze d’arancio o di limone.
Con le olive si confezionano le rinomate ‘ascolane tenere’ in salamoia, mentre con le piante selvatiche si preparano sottolio, sottaceto e confetture. Finiscono in barattolo: cardi, carline, boccioli di calendula e di tarassaco, finocchio marino, germogli di pungitopo e fiori d’acacia.
Ma è nei preparati dolci che si trovano i nomi e le combinazioni più originali.
Dal sapore di festa è la lonzetta di fico, a forma di salama avvolta in foglie di fico legate con fili di lana, preparata con un composto di fichi essiccati, macinati e uniti a mistrà, rhum, semi di anice, noci e mandorle tritate; un tempo questa era una dolcezza natalizia, oggi accompagna formaggi di fossa e ricotte.
Emblemi delle tradizioni passate sono la marmellata di mele e radici di cicoria, la salsa di corniole e di prugnole, la paccuccia con mele e pere.

L’area del Verdicchio e Rosso Piceno

Si può ritenere che la coltura della vite fosse fiorente sulle pendici collinari marchigiane già prima della conquista Romana (268 a.C.). Allora la viticoltura era fra i settori portanti dell’economia agricola, tanto che prima Catone e po Varrone scrissero ammirati sulle elevate rese dei vigneti della sponda adriatica tra il Piceno e il Riminese. Plinio riportò nei suoi scritti che il vitigno “Hirtiola” oltre ad essere tipico dell’Umbria lo era anche del Piceno, e ciò proverebbe l’influenza Etrusca sulla viticoltura marchigiana. Lo stesso Plinio lodò i vini di Teramo e quelli di Ancona, questi ultimi definiti eccellenti e molto graditi per il loro sapore anche dallo storico Strabone. Con la caduta dell’Impero romano e l’invasione dei barbari, le notizie sulla viticoltura marchigiana diventano incerte. Da alcune fonti risulterebbe che il re dei Visigoti Alarico, per ritemprare le energie dei suoi combattenti, avrebbe portato con se “quaranta some in barili” di vino Verdicchio.
Rare sono le notizie nel Medioevo ma sembrerebbe che nell’area, per l’introduzione di nuovi vitigni e del miglioramento tecnico nella vinificazione, apparirono vini come l’Osimano, il Gaglioppo o Vernaccia. Pier de’ Crescenzi testimoniava che il Trebbiano era diffuso in tutta la regione e produceva vino nobile, dalle caratteristiche gradevoli e molto serbevole.
Nel ‘500 Pietro Aretino, in una lettera inviata al Sansovino, parla dei vini delle Marche e del Verdicchio, come la toccasana di tutti i mali. Alla fine dello stesso secolo il Bacci (d’origini marchigiane) difese la produzione della regione, segnalando gli eccellenti Moscato e Malvasia dell’ascolano, ma facendo un distinguo sugli altri vini prodotti. “Fiacchi, pingui e acquosi” quelli dei terreni di pianura del versante sinistro dell’Appennino; “sinceri” non abbisognevoli di alcuna manipolazione quelli provenienti dalle vigne sulle quali spirava l’aura marina. Infatti, a quei tempi per aumentare il grado zuccherino dei mosti, se ne praticava la cottura, che però peggiorava la qualità dei vini. Col passare dei secoli, il settore vitivinicolo dell’area si elevò sempre più in qualità e quantità, raggiungendo ai primi dell’Ottocento un quadro abbastanza vicino all’attuale. Il Verdicchio di Matelica fu il vino preferito dal pesarese Rossini (XIX sec.), e anche Giuseppe Garibaldi, nel 1849 in procinto di marciare alla volta di Roma, individuò in questo superbo nettare la capacità di infondere nei suoi volontari coraggio ed entusiasmo.
Oggi le Marche non sono solo Verdicchio dei Castelli di Iesi o di Matelica (dalla tipica bottiglia a forma d’anfora, il cui nome fa riferimento al colore dell’acino che anche maturo non perde i riflessi verdi). Qui si producono anche ottimi rossi, sia nella categoria dei vini da tavola che in quella delle DOC, come il Rosso Conero e il Rosso Piceno.

Fonte
TaccuiniStorici.it  Testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.