sabato 18 febbraio 2012

Stoccafisso & Baccalà

Due modi di conservare lo stesso pesce, il Merluzzo: essiccato all'aria diventa Stoccafisso, conservato sotto sale diventa Baccalà. Gli Italiani, fra i maggiori consumatori, lo adottarono subito facendone ricette squisite, sia in una veste che nell'altra. Essendo nato come un cibo morigerato e adatto alle prescrizioni religiose del venerdì magro, entrò con modestia nella cucina dei conventi, in quella dei contadini e in quella del popolo, ma divenne in seguito un cibo ricercato, cotto in mille modi fantasiosi, degno della mensa di un Re.

UN PO' DI STORIA SUL MERLUZZO SALATO O ESSICCATO


I migliori testimonial del merluzzo sono i Vichinghi, i grandi navigatori provenienti dal nord della Norvegia. Dalle loro parti, al largo delle isole Lofoten, di merluzzi ce n'erano a iosa: i Vichinghi li pescavano, e li facevano essiccare all'aria aperta. Ne veniva fuori un alimento perfetto per le loro esigenze: lo stoccafisso.  Nutriente, leggero (poca acqua, poco peso) di lunga conservazione (perché disidratato, come le mummie). Per i loro interminabili viaggi per mare, verso la Groenlandia, l'America o vattelapesca, non c'era di meglio. Un bel giorno però i Vichinghi persero il monopolio della pesca del merluzzo. Per colpa delle balene. Le popolazioni basche del Golfo di Guascogna (tra la Spagna settentrionale e la Francia) davano loro la caccia, e in effetti le cacciarono da lì: scappando verso nord, con i baschi alle calcagna, ben decisi a non perdersi quelle montagne di risorse alimentari, le balene si portarono nell'Atlantico settentrionale, fin nel mezzo dei Grand Banks: dei banchi di merluzzo così fitti, che per catturarli bastava affondarci dentro le mani. Una volta scoperti questi giacimenti di merluzzo, i baschi ci tornavano tutte le volte: ma per conservarlo, invece di esporlo all'aria (che in Spagna è meno fredda che in Norvegia!) all'uso dei Vichinghi, lo mettevano sotto sale: abitudine che avevano preso con le balene. Nasceva così il baccalà.  
Nutriente, leggero (poca acqua, poco peso) di lunga conservazione (perché disidratato, come le mummie). Per i loro interminabili viaggi per mare, verso la Groenlandia, l'America o vattelapesca, non c'era di meglio. Un bel giorno però i Vichinghi persero il monopolio della pesca del merluzzo. Per colpa delle balene. Le popolazioni basche del Golfo di Guascogna (tra la Spagna settentrionale e la Francia) davano loro la caccia, e in effetti le cacciarono da lì: scappando verso nord, con i baschi alle calcagna, ben decisi a non perdersi quelle montagne di risorse alimentari, le balene si portarono nell'Atlantico settentrionale, fin nel mezzo dei Grand Banks: dei banchi di merluzzo così fitti, che per catturarli bastava affondarci dentro le mani. Una volta scoperti questi giacimenti di merluzzo, i baschi ci tornavano tutte le volte: ma per conservarlo, invece di esporlo all'aria (che in Spagna è meno fredda che in Norvegia!) all'uso dei Vichinghi, lo mettevano sotto sale: abitudine che avevano preso con le balene. Nasceva così il baccalà.
 I vichinghi impararono dai baschi questo nuovo sistema di conservazione del merluzzo, e ne estesero l'impiego: oltre che come cibo, sulle loro navi il baccalà fungeva anche da barometro. Dopo averlo messo sotto sale, lo appendevano a bordo con delle corde. Quando il baccalà cominciava a gocciolare, voleva dire che era in arrivo una tempesta: la maggiore umidità dell'aria faceva infatti sciogliere il sale. Oggi i barometri saranno magari più sensibili, ma non sono commestibili come quelli di una volta. I Vichinghi portarono il baccalà in molte parti del mondo, ma solo quando finì in mano agli americani la b di baccalà si coniugò davvero con la b bi business.
Nel 1620 i Pilgrim Fathers, i Padri Pellegrini, protestanti in fuga dall'Inghilterra, sbarcarono con la Mayflower su di un promontorio del nuovo mondo che aveva un nome profetico: Cape Cod. Che non vuol dire altro che "Capo Merluzzo". Questo nome ci fa capire di quale pesce fossero pieni quei mari. Non capendo un'acca di agricoltura, i Padri Pellegrini si diedero alla pesca. La cosa dovette funzionare, se già pochi decenni più tardi le navi degli "americani" partivano dal New England stivate e stipate di baccalà, dirette ai Caraibi, a Capo Verde e alle Canarie, con destinazione finale Portogallo.Il baccalà veniva scambiato con prodotti coloniali (zucchero, melassa, ecc.) e anche con schiavi, che venivano trasportati in America per lavorare nelle piantagioni.
Arrivati là, gli schiavi venivano nutriti con la stessa moneta con cui erano stati comprati: il baccalà, appunto. Il desiderio degli Inglesi di inserirsi in questo lucroso commercio provocava continui scontri fra le navi di Sua Maestà Britannica e gli schooner, le veloci barche americane impiegate per la pesca del merluzzo, che per meglio difendersi si erano dotate di cannoni. La guerra del baccalà contribuì insomma a inasprire il clima già teso tra l'Inghilterra e la sua ex colonia d'oltremare, consolidando quell'ostilità che avrebbe condotto, nel 1776, alla dichiarazione d'indipendenza americana.
Sulle banconote da un dollaro, oltre alla faccia di Lincoln dovrebbe perciò comparire un bel merluzzo, magari di profilo. Come quello tuttora presente nello stemma municipale di Boston. Se non una banconota, il baccalà meriterebbe per lo meno un francobollo commemorativo: nei secoli ha salvato la vita a tanta gente, che altrimenti sarebbe morta letteralmente di fame. Ancora nell'ottocento, la classe operaia inglese tirava avanti a forza di "fish and chips", un binomio in cui il fish era (ed è ancora) il merluzzo, che si coniugava con le chips (patate) per il semplice fatto di essere cheap: economico. Il mercato inglese assorbe 170.000 tonnellate di baccalà all'anno, ed è al primo posto nel mondo. Sarà per questo che gli inglesi, quando si tratta di baccalà, non si rivelano mai dolci di sale. Per citare soltanto degli episodi recenti, nel 1973 fregate e cannoniere inglesi ed islandesi si sono fronteggiate a muso duro - e a colpi d'artiglieria - per il controllo dei grossi banchi di merluzzo che si trovano nei mari tra i due paesi.

IL BACCALA' ALLA VICENTINA
"Si racconta che, nel 1269, i vicentini che tentavano l'assalto al castello di Montebello, difeso dai veronesi, alle guardie che gridavano altola', rispondessero: oh, che bello, noi portiamo polenta e baccala'. E subito i veronesi, golosi, spalancarono il portone …"


SIORA VITTORIA", LA CREATRICE DEL "BACALA' ALLA VICENTINA"

1890: tempo lontano , quasi irreale…. La citta' sonnecchiava : i "titolati" si radunavano al loro circolo che si chiamava appunto "Casino dei nobili" e trascorrevano le lunghe serate nei virtuosismi del biliardo o commentando le gazzette ; le signorine accompagnate dalle vigilanti genitrici , compievano la passeggiata crepuscolare per il Corso con meta il caffè "Cavour" , per l'aranciata o il gelato da sorbire golosamente. Uno dei ritrovi piu' in voga , era quello della trattoria "Polenta e baccala' " aperto dalla signora Giuseppina Terribile in Bianco , detta familiarmente la "siora Vitoria". La "siora Vitoria" era diventata in breve una vera e propria istituzione cittadina . Verso il mezzogiorno del lunedi' , giornata consacrata in specialissimo modo alle scampagnate degli orefici , la trattoria della "Siora Vitoria" era gremita di clienti che consumavano in allegria il piatto tipicamente vicentino di cui la proprietaria possedeva l'unica infallibile ricetta…." Buona scelta della materia prima , abbondanza di olio ottimo , pochi intrugli e tanta cucina , vale a dire preparazione e cottura lentissima ….". Le ordinazioni e le esclamazioni di compiacimento , si incrociavano da saletta a saletta , da corte a corte . La "siora Vitoria", negli anni che trascorsero , si mantenne sempre la stessa : la fama del "bacalà alla vicentina " , intanto , aveva varcato i confini della provincia ; le automobili dapprima rumorose ma lente , e via via piu' snelle , piu' silenziose , piu' moderne si fermavano davanti alla trattoria : scendevano signore eleganti e signori vestiti all'ultima moda , si fermavano all'ombra del pergolato e gustavano il piatto tradizionale . L'orologio del tempo ha segnato tante ore nel suo quadrante , ma il "baccalà alla vicentina" , scoperta personale della "siora Vitoria", continua ad attirare clienti da ogni centro della provincia e da altre regioni . -bon apetito- sembra dire la buona antica proprietaria dalla fotografia che campeggia su di una parete della sala grande . E gli occhi le splendono . Pensa forse con nostalgia ai fornelli della sua cucina ...


LA RICETTA

Dal sito ufficiale del baccala' alla vicentina: www.baccalaallavicentina.it
La "VenerabileConfraternita del bacalà alla vicentina" suggerisce una ricetta che e' il frutto di studi e di comparazioni tra le numerose ricette in auge nei ristoranti e nelle trattorie piu' famose del Vicentino tra gli anni trenta e cinquanta senza demonizzare le varianti attualmente in servizio.

Ingredienti per 12 persone:
kg . 1 di stoccafisso secco ; g. 500 di cipolle ; litri 1 d'olio d'oliva extra vergine ; n 3-4 acciughe ; 1/2 litro di latte fresco ; poca farina bianca ; g. 50 di formaggio grana grattugiato ; un ciuffo di prezzemolo tritato ; sale e pepe.

Procedimento:
Ammollare lo stoccafisso , gia' ben battuto , in acqua fredda , cambiandola ogni 4 ore , per 2-3 giorni.
Levare parte della pelle. Aprire il pesce per il lungo, togliere la lisca e tutte le spine.
Tagliarlo a pezzi quadrati, possibilmente uguali. Affettare finemente le cipolle; rosolarle in un tegamino con un bicchiere d'olio , aggiungere le acciughe dissalate, diliscate e tagliate a pezzetti; per ultimo , a fuoco spento , unire il prezzemolo tritato.
Infarinare i vari pezzi di stoccafisso , irrorarli con il soffritto preparato, poi disporli uno accanto all' altro, in un tegame di cotto o di alluminio, oppure in una pirofila ( sul cui fondo si sara' versata , prima , qualche cucchiaiata di soffritto ); ricoprire il pesce con il resto del soffritto, aggiungendo anche il latte, il grana grattugiato il sale, il pepe.
Unire l'olio, fino a ricoprire tutti i pezzi, livellandoli.
Cuocere a fuoco molto dolce per circa 4 ore e mezzo , muovendo ogni tanto il recipiente in senso rotatorio , senza mai mescolare .In termine vicentino , questa fase di cottura si chiama "pipare".
Solamente l'esperienza saprà definire l'esatta cottura dello stoccafisso che, da esemplare ad esemplare, puo' differire di consistenza. Servire ben caldo con polenta in fetta : il baccalà alla vicentina e' ottimo anche dopo un riposo di 12-24 ore.



BACALHAU A GOMES DE SA ( Baccalà alla Portoghese )

Ingredienti per 6 persone

500 g di baccalà (ammollato), 500 g di patate, 100 g di cipolle, 100 g di olive nere, 3 dl di olio extra vergine d’oliva, 1 spicchio di aglio, 1 ciuffo di prezzemolo, 4 chiodi di garofano, sale, pepe

Procedimento:
Lavare il baccalà, tagliarlo a pezzi, metterlo in un tegame e ricoprilo con acqua fredda.
Portarlo a ebollizione a fuoco moderato e lasciarlo cuocere per circa 10 minuti.
Lavare le patate e farle lessare, scolandole ancora un po’ al dente. Pelarle e tagliarle a fette.
Tagliare le cipolle a rondelle e tritare finemente l’aglio. Mettere un po’ di olio in un tegame e fare imbiondire le cipolle, facendo attenzione che non prendano troppo colore. Quando saranno pronte, toglierle dal fuoco e unire ad esse l’aglio tritato.
Ungere una pirofila con dell’olio, disporci uno strato di patate, con sale e pepe, poi subito dopo uno strato di baccalà. Cospargere con le cipolle e con l’aglio, mettere un chiodo di garofano e continuare a formare strati in questo modo fino ad esaurimento degli ingredienti. Dopo l’ultimo strato mettere in superficie le olive nere, precedentemente snocciolate.
Bagnare con il rimanente olio e mettere a cuocere in forno a 180°C per circa 20 minuti. La superficie deve risultare bella gratinata. Cospargere con il prezzemolo tritato e servire ben caldo.



venerdì 17 febbraio 2012

Mi inchino davanti a questo grandissimo fotografo

















Dopo aver visto la mostra fotografica di Steve McCurry posso pure buttare la mia macchina fotografica. Questi sono solo pochi scatti, in mostra al museo Macro di Testaccio a Roma. Meravigliosi.

venerdì 10 febbraio 2012

La polenta ed i suoi amici

Si si, "La polenta ed i suoi amici" sarà il titolo del mio nuovo delirio da scrittore! Parliamo dunque un po' di questo piatto da Re, prima che affronti appunto, il mio terzo viaggio delirante.

 LA POLENTA DI UNA VOLTA
di Mario Maragnani

La madre era curva sul focolare,
l'impastato col mestone agitava
dentro un paiol di rame rimaneva
bionda farina già pronta a gettare.

Densi fumi salivano al soffitto
quando la donna staccava il paiolo,
polenta cadeva in tagliere al volo
sulla torta ardente l'occhio era fitto.

Ricordi belli d'infanzia lontana,
quando noi bimbi armati di forchetta
la crosta raschiavam sul fondo in fretta,
croccante al dente golosità arcana.

Col filo di refe, fette tagliava,
la madre sparenti in avide gole,
col merluzzo salacca a volte sola
la folta famiglia così campava.

Il mattin seguente, intorno alla brace,
stecconavamo le fette dorate
a prima colazione divorate.
Poi a lavorare si andava in pace.

La famiglia allora a risparmio intenta
trascorreva così autunno e inverno,
in attesa del meglio al proprio interno
mastice unione era la polenta.



La polenta

La polenta: un alimento che per secoli ha sfamato intere generazioni: bianca o gialla a seconda delle zone, ma sempre e comunque presente sulle tavole dei nostri nonni. Polenta a mezzogiorno, alla sera, ma spesso anche alla mattina , per colazione.
Come mai era considerata così importante?  Ce lo siamo chiesti spesso, ma  per trovare una risposta abbiamo dovuto intervistare i nostri nonni e invitare alcuni di loro a scuola per parlarci di come  vivevano una volta e soprattutto come e cosa mangiavano.
Numerose sono state le testimonianze raccolte, tanti i racconti e le storie curiose e quelle sulla polenta non sono mai mancate.
Una presenza costante, quasi un simbolo di un’epoca trascorsa e talmente radicata che  ancor’ oggi per  dire: “andiamo a mangiare” si dice spesso:” ‘ndon a polenta”; non per nulla i Veneti vengono definiti per antonomasia  “polentoni”.
A Revine si racconta:” La Polenta l’è na siora/ chi che la vet se inamora/ chi che la magna se sostenta/ benedeta la polenta”; oppure: “polenta e lat me iova, ma no la camisa nova”.
Il mais, prodotto base per la polenta, è  arrivato in Europa con Cristoforo Colombo e,  già all’inizio del XVIII secolo, aveva larga-mente  soppiantato gli altri cereali.
Le persone che sono venute a scuola, ci hanno raccontato che ai loro tempi non c’era un fazzoletto di terra incolto, e dove era appena possibile,  dopo aver arato il campo con l’aiuto dei buoi, ma più spesso delle stesse mucche da latte,  veniva seminata la biava (tu ciol par semenzha quela pi bel e pi picenina).
Nello stesso campo  venivano seminati anche i fagioli per sfruttarne il lungo gambo al posto delle scarazhe e per terra, ai bordi della larga,  venivano seminate zucche di ogni qualità.
Il raccolto avveniva tra fine settembre e ottobre, e le panoie, dopo essere state lasciate per qualche settimana appese a gruppi di tre o quattro, legate insieme sulle cantinele del piol  o in un posto assolato ad essicare, venivano scartozhade, cioè  venivano tolte le caratteristiche foglie (foiole) che avvolgono la panocia o panoia e, dopo una semplice lavorazione, si potevano impiegare per impagliare sedie, fare borse, o più semplicemente venivano messe nel paion,  l’antenato dell’attuale nostro materasso; si dice anche che  quelle più morbide fossero usate per  avvolgere il burro da vendere.
Nelle sere d’inverno, nelle stalle, durante il filò, le panoie venivano sgarbade a mano o con la mitica macchina da sgarbar biava.
Col tutolo rimasto (mognola, muzhola o botol) i nonni costruivano dei giocattoli per i nipoti: bambole, soldatini, statue per il presepio,  cavallini ecc.
Andare al mulino e tornare a casa col sac de farina era una cosa così usuale che veniva spesso citata nelle filastrocche e  nei proverbi locali.
La farina veniva conservata nella cassapanca in cucina e prima di versarla nella caliera da polenta a piccoli pugnetti e ben rigirata per quasi un’ora, veniva passata col tamiso per eliminare le impurità o i piccoli insetti (tarme e zole) che vi si annidavano.
Una volta cotta veniva versata sul grande taier posto al centro della tavola, tagliata a fette con lo spago e  coperta con un tovagliolo affinché non si raffreddasse e per dare il tempo a tutti di sedersi a tavola. La polenta locale era bianca, molto più morbida e leggera e delicata di quella gialla che era si più nutriente ma rozza e forte.
Verso la fine dell’estate, quando le scorte di farina stavano per finire, cominciavano a formarsi dei piccoli vermetti bianchi; segno che la farina stava per finire e in gergo locale si usava dire:” la farina la ciama al novo”, cioè si stava approssimando il nuovo raccoltoLA PREPARAZIONE DELLA POLENTA:
(Tratto dal libro “le ricette inutili”di Aldo Toffoli, Dario de Bastiani editore).
Perché l’esito sia ottimale è necessaria una caliera di rame con relativo manico di ferro a semicerchio, agganciato a due occhielli sporgenti dall’orlo.
La caliera va appesa alla cadena del camin, nel caso si voglia fare la polenta sul larin; altrimenti va integralmente immersa nel bus centrale della cusina economica. Bisogna salar subito l’acqua per evitare tragiche, irrimediabili dimenticanze (la polenta desavida è immangiabile).
 Quando l’acqua l’à ciòt su el bòio la caliera deve essere allontanata un po’ dal fuoco (scurtar tre-quattro anèi de à cadena o aggiungere do- tre zhérchi sula cusina) perché la boie pian  mentre si versa la farina.
E’ questo un momento delicato, perché si corre il rischio de far gnòc (a Revine si chiamano potoi): per evitarli bisogna versare la farina lentamente, con la mano sinistra, mentre con la destra si agita continuamente l’acqua, usando il mescol (mescola).
Arrivati alla densità voluta (tenendo presente che nel corso della cottura la polenta evapora e quindi diventa più solida), si reimmerge la caliera in pieno fuoco e si mescola per circa un ora. Anche mescolare è un arte, e per farlo con la caliera appesa alla catena del larìn occorre abilità da virtuosi. Descrivere questo rito è impossibile: vale solo, per chi lo voglia apprendere, assistere all’esibizione dei maestri.
Basti comunque dire che si deve usare ‘l mescol impugnandolo pressoché a metà, per consentirgli di fare leva sull’ avambraccio e mescolando la polenta per parti progressivamente più grandi, tagliandola obliquamente: chi volesse tentare di mescolarla a tondo non riuscirebbe a farcela per più di due o tre minuti e alla fine nemmeno la cottura riuscirebbe bene. Dopo circa un’ora (ma se ‘l fogo l’è bon, bastano anche cinquanta minuti), se leva el brustoin, che è il sapore inconfondibile della buona polenta (sapore assente irrimediabile dalla polenta dei supermercati).
Non basta ancora e non ci si deve fermare: la cottura è al punto giusto solo quando la polenta se destaca da le croste de la caliera, anche le croste cominciano a levarsi, e ‘l mescol non peta più sulla polenta. (La prova definitiva che la polenta è cotta perfettamente viene poi dalle croste che, dopo sartada, si staccano dalla caliera in un pezzo solo).
Prima de sartarla sul taier, la polenta deve essere petenada col mescol, cioè ordinatamente disposta nella caliera:
A questo punto – una mano tiene il manico e una l’orlo della caliera, naturalmente aiutandosi coi ciapin – se la sarta con colpo secc al centro giusto del taier. ( Gli incidenti tipici dei principianti sono: accompagnare troppo la caliera sul taier e quindi scottarsi le dita della mano che tiene la caliera, investite dalla polenta; oppure sartar la polenta fora del taier, cioè sbagliare la mira e non calare direttamente la polenta al centro del…bersaglio, con le ovvie conseguenze). Il taier, s’intende, deve essere di legno, meglio se de pez, ed avere il manico provvisto del fil. Senza ‘l fil, è il caso di non mangiare nemmeno la polenta. Anzi, diffusa abitudine era anche quella di tagliare una fetta della polenta appena sartada e mettergliela sopra. Pensiamo – ma ci potremmo sbagliare – che fosse per avere, e dare, la prova che la polenta era solida al punto giusto. Ciò perché la fetta la si doveva poter prendere con la mano. (E con la mano, normalmente la si distribuiva ai commensali).
Una volta sartada, la polenta si può mangiare subito. Ma è buona norma lasar che ‘a se sore (se iazhe) per una decina di minuti. Alla fine dei quali- se osservato quanto precede- si potrà direttamente constatare quanta ragione abbia chi definisce la polenta la regina della tavola veneta (e, per derivazione legittima, vittoriose).

Le molte faccie della...polenta

Le croste
Nella caliera usata per la polenta rimanevano le croste che venivano tolte dalla caliera e frammentate perché dopo aver aggiunto del latte sarebbero state una prelibata colazione.

La polenta boista
I protagonisti di questa prelibatezza erano due: la polenta ed il latte freddi.
Si procede così: il latte si fa bollire in una pentola, si mette del sale e si aggiunge la polenta spezzettata, il risultato? Una crema di polenta.

La polenta brustolada
Quando avanzava della polenta, o si mangiava fredda, oppure si riscaldava brustolandola, questa semplice alternativa si svolgeva appoggiando un trapiè sora le borzhe o sulla piastra rovente della stufa, si lasciava riscaldare fino a quando la fetta si staccava da sola dalla piastra formando una sottile e gustosa crosta, la si girava dall’altra parte ripetendo l’operazione e quindi si serviva in tavola.

Polenta e fichi secchi
Una dolcezza da 110 e lode erano: una fetta di polenta mangiata insieme ai fichi secchi.
Ma la regola vuole che i fichi siano locali perché più dolci.

Polenta e zuchero o polenta e cane
Altro che cioccolata!  I veri dolciumi antichi erano, semplicemente una fetta di polenta spolverata con dello zucchero oppure con  un po’ di cannella.

Fonte: www.tragol.it/saperisapori/polenta.htm

Polenta e stufato

Ingredienti
400 gr di farina per polenta 650 gr di spalla di vitello disossata, piuttosto magra e tagiata a pezzetti
300 gr di funghi porcini 50 gr di pancetta in un pezzo solo 2 coste di sedano 1 cipolla  1 carota
burro olio mezzo bicchiere di vino rosso 3 cucchiai di conserva di pomodoro
brodo farina 00 quanto basta sale e pepe quanto basta

Procedimento:
Lavate e titate il sedano, la cipolla, la carota e la pancetta. Poi fate appassire il tutto in una capiente casseruola con 40 gr di burro e 4 cucchiai d'olio. Tenete la fiamma bassa e mescolate ed infine aggiungete sale e pepe quanto basta. Intanto, raschiate i funghi con un coltellino e strofinateli con un panno umido, dopodiché tagliateli a fettine sottili. Una volta appassito il soffritto, aggiungetevi i pezzetti di carne, leggermente infarinati. Lasciate dorare e spruzzate con vino (che farete evaporare). Unite un mestolo di brodo e cuocete per circa una mezz'ora. Preparate la polenta in un'altra pentola. Dopo i primi 30 minuti di cottura della carne, aggiungete (alla carne) i funghi e la conserva di pomodoro diluita con 2 mestoli di brodo. Aggiungete sale e pepe quanto basta ed infine lasciate cuocere per altri 40 minuti, unendo del brodo ogni tanto. Per finire, versate la polenta pronta in uno stampo a ciambella, rovesciatelo, così che nel mezzo possiate sistemate lo spezzatino.


Polenta e fonduta

Ingredienti
Farina per polenta Gorgonzola Fontina Panna da cucina Burro o olio

Procedimento:
Una ricetta facile e veloce.
Mentre preparate la polenta prendete una pentolina antiaderente con il bordo un po' alto e scoglietevi almeno una noce di burro.
Aggiungete i vostri formaggi preferiti (meglio se molli e saporiti) e un po' di panna da cucina. Mescolate il tutto ed in brevissimo tempo avrete una miscela ottima da accompagnare alla polenta che avete già preparato.
Questa preparazione può essere fatta anche nel microonde.
Prendete una tazza in ceramica capiente e mettete insieme tutti gli ingredienti. Scegliete una temperatura abbastanza alta ed in brevissimo la miscela sarà pronta. Date una mescolata ed aggiungetela alla polenta che avete già preparato.

Polenta e fagioli

Ingredienti
1Kg di farina per polenta, 500 gr di fagioli borlotti, 300 gr di pancetta, 6 salsicce, olio extravergine di oliva,
1 cipolla, 100 gr di vino bianco secco, peperoncino a volontà, sale e pepe quanto basta

Procedimento:
Mettere a mollo in acqua fredda i fagioli 12 ore prima; lavarli in acqua fresca. Effettuato il lavaggio versate i fagioli in pentola con acqua fresca e sale. Cominciate la cottura a fuoco moderato. Intanto soffriggete in un tegame con l'olio la cipolla tagliata a fettine e la pancetta tagliata a tocchetti, salando e aggiungendo, se si vuole, del peperoncino. Condite i fagioli con metà del soffritto e continuare a far cuocere lentamente. Preparate la polenta e a cottura ultimata versare nella pentola (della polenta) l'altra metà del soffritto, girando velocemente. Infine unite polenta e fagioli e lasciate cuocere ancora per qualche minuto.

Polentine (Biscotti di polenta)

Ingredienti:
200 g di farina di mais 100 g di farina bianca 00 1/2 bustina di lievito 60 g di zucchero 90 g di burro
latte

Procedimento:
Mescolate in una ciotola le farine, il lievito e lo zucchero. Versate in centro il burro fuso e 6 cucchiai di latte. Mescolate fino ad ottenere un impasto simile alla pasta frolla. Se necessario , aggiungete altro latte. Stendete la pasta con il matterello su uno spessore di circa ½ cm e ritagliate con delle formine a vostro piacere, con il coltello o con la rotellina. Disponete su una teglia imburrata o carta da forno e cuocete nel forno già caldo a 180° per circa 12 minuti.
Variante con gocce di cioccolato: potete cospargere la superficie della pasta già tirata con il matterello con gocce di cioccolato fondente. Passate nuovamente il matterello senza premere troppo e tagliate le forme.
Versate il tutto nelle apposite fondine già tenute al caldo; aggiungere per ogni fondina una salsiccia, cucinata in padella e forata durante la cottura in vino

lunedì 6 febbraio 2012

Ed ora parliamo un po' del freddo

Zuppe e vellutate per scaldare il nostro inverno



Cremose, calde e gustose, permettono di fare il pieno di fibre e vitamine. In autunno e inverno, le zuppe e le vellutate diventano le protagoniste della nostra tavola.
A base di verdure di stagione o di ortaggi surgelati, le zuppe sono un ottimo modo per mangiare in modo sano ed equilibrato, coccolando i palati più delicati all'insegna della leggerezza e del gusto.
A volte basta un tocco di originalità per rivisitare in chiave nuova le zuppe e vellutate tradizionali, provando inediti accostamenti di sapori o sperimentando nuove spezie.
Dalle zuppe contadine, alle vellutate più raffinate, dai sapori più semplici ai gusti più insoliti, ecco qualche ricettina di zuppe e vellutate.


Minestra di patate e lavanda

Ingredienti per 4 persone
300 g patate 1cipolla 1 litro brodo burro parmigiano 320 g di ditali fiori di lavanda sale

Preparazione
In una casseruola cuocere 300 grammi di patate pelate e tagliate a tocchi, una cipolla pelata e tagliata a tocchi e un litro di brodo.
Cuocere per circa un’ora finché le patate non si disfino completamente e non si sia ristretto il brodo. A questo punto togliere la crema dal fuoco e mantecarla con una noce di burro e una manciata di parmigiano o pecorino grattugiato.
Cuocere a parte dei ditali in acqua salata e, una volta cotti, condirli con dei fiori di lavanda e burro. In un piatto fondo fare una base con la crema di patate e al centro adagiare i ditali alla lavanda.


Zuppa di funghi porcini

Ingredienti per 4 persone
600 gfunghi porcini freschi 1,5 lbrodo vegetale 1 spicchioaglio 1  cipolla piccola 1 fetta di lardo
1 bicchiere di vino bianco 4 fette di pane abbrustolito o tostato 1 rametto di nepitella olio extra vergine di oliva  sale pepe bianco in grani

Preparazione
Pulire i funghi e separare i gambi dalle teste. Macinare i gambi, tagliare le teste a fettine di circa 3 mm di spessore, lasciandone da parte alcune da aggiungere all’ultimo momento nella cottura e da utilizzare come guarnizione del piatto. Unire al brodo vegetale qualche fettina di gambo per insaporire. Macinare il lardo, tritare la cipolla finemente. In una casseruola soffriggere cipolla, lardo, aglio e nepitella, fare imbiondire a fuoco moderato, aggiungere un po’ di vino bianco e lasciare evaporare. Inserire qualche grano di pepe, i gambi macinati girando lentamente con un cucchiaio di legno. Procedere allo stesso modo con le teste tagliate, salare leggermente, incorporare il vino rimasto insieme al brodo vegetale. Lasciare cuocere per circa 40 minuti girando di tanto in tanto. Se la zuppa è troppo densa, unire ancora un po’ di brodo. Adagiare nel piatto il pane abbrustolito e leggermente agliato, cospargerlo con un giro di olio extravergine.


Vellutata di castagne

Ingredienti per 4 persone
300 gr di purea di castagne 1 l di brodo di pollo o di verdura 20 cl di panna da cucina
castagne intere prezzemolo sale e pepe noce moscata.

Preparazione
Preparare il brodo di verdure o di pollo e, una volta cotto, versarvi dentro la purea di castagne.
Mischiare bene e aggiungere un po' di prezzemolo tritato, sale e pepe. Dopo qualche secondo, aggiungere la panna da cucina e la noce moscata.
Lasciar cuocere a fuoco lento fino a che il composto non risulti cremoso.




venerdì 3 febbraio 2012

E' arrivato il freddo ed il Carnevale,... parliamo prima del Carnevale.

Il Carnevale è collocato nel calendario liturgico cristiano tra l'Epifania e le Ceneri, e in passato i giorni in cui veniva più propriamente celebrato erano concentrati tra il giovedì "grasso" e il martedì precedente le Ceneri.
Questo evento ha le sue radici storiche nella festa in onore di Saturno (Saturnalia) officiata dai romani durante lo stesso periodo dell'anno, nella quale sono confluiti antichi riti agrari purificatori e propiziatori, che segnavano il principio del nuovo ciclo stagionale.
Tra le molteplici interpretazioni che si avanzano sull'etimologia della parola "carnevale" prende una qualche consistenza quella che farebbe derivare il nome da "carnem levare", letteralmente "levare la carne", regola medievale imposta dalle autorità ecclesiastiche.
Nella cultura dell'epoca, il male si identificava con i peccati capitali che nella concezione popolare venivano esaltati un'ultima volta (carnevale), per poter essere poi eliminati dalla "purificazione" (quaresima).
In tutti i carnevali italiani e dei paesi latini, buona parte degli eccessi riguardavano il campo alimentare. La sua coincidenza con le celebrazioni di Sant'Antonio e con il rito contadino della macellazione del maiale, lo sposavano al trionfo delle ghiottonerie suine d'ogni genere. Per esempio, venivano lanciati pezzi di maiale alla folla festante sia nella "Festa della porchetta" (carnevale di Bologna del 1279 ), che nella "Cuccagna del porco" (fino al '500, periodo di nascita del carnevale romano), dove dalle finestre delle case dei Colonna arrivavano pezzi di cibo sul popolo.
In ogni carnevale erano tradizionali i carri trionfali dell'Abbondanza che portavano figure simboliche cariche di cibi a mò di ornamenti. Durante le celebrazioni si effettuavano anche recite allegoriche di grande successo, come testimoniano scritti dal Medioevo al '700, nelle quali il Carnevale in forma di fantoccio o animale veniva processato e poi condannato, prima di morire, a redigere un testamento dove il cibo era il protagonista principale.
Goethe diceva che il Carnevale non era una festa che si offriva al popolo, ma una festa che il popolo offriva a se stesso, dove il mondo si rovesciava, si sbeffeggiavano le autorità, e il servo diventava padrone e il padrone servo.
Il Carnevale delle sarabande chiassose e delle rappresentazioni corali Medioevali, diventò nel Rinascimento più scenografico e riccamente rappresentato, per giungere quasi inalterato fino a dopo la metà del ‘900.
Oggi una delle usanze gastronomiche di Carnevale, ancora viva in quasi tutte le regioni italiane, è la preparazione di dolci molto semplici di pasta fritta. Guarniti di miele o di zucchero a velo, assumono nomi diversi nelle varie aree: Tortelli o Chiacchiere (Lombardia), Cicerchiata (Puglia e Calabria), Zeppole (Veneto), Pignoccata (Sicilia), ecc.

Le castagnole


Ingredienti 

200 gr di farina, 40 gr di burro, 50 gr di zucchero, 2 uova, 1 cucchiaio di liquore all’ anice, mezza bustina di lievito in polvere per dolci, 1 pizzico di sale mezza bustina di vanillina,
la scorza di un limone, olio di semi per friggere, zucchero a velo per guarnire.

Preparazione

Su una spianatoia e versate la farina a fontana,le uova e lo zucchero. Amalgamate bene fin quando lo zucchero non si sarà sciolto.Poi incorporate il resto degli ingredienti.Iniziate con il burro a pezzetti,poi il liquore, la vanillina, il sale, la scorza grattugiata del limone e in fine versate il lievito. Lavorate tutti gli ingredienti insieme,fino ad ottenere un composto liscio e omogeneo. Formate una palla e fatelo riposare per un paio di minuti.
Formate dei cordoncini di pasta di circa 2 cm e tagliatela a forma di noccioline. Giratele nelle mani, in modo da dargli una forma rotonda.
Friggetele in abbondante olio caldo poco alla volta, a fuoco basso. Quando saliranno a galla e avranno un colorito dorato toglietele con una schiumarola. Ponetele su carta assorbente e fate raffreddare.
Quando le andrete a servire mattatele su un vassoio e spolverizzatele con zucchero a velo o zucchero semolato.