venerdì 30 dicembre 2011

Buon Anno a tutti quanti con .............


Zampone Modena IGP

Lo Zampone Modena IGP e` un preparato di carne dalla forma di arto anteriore di maiale (completo di falangi distali), realizzato insaccando all’interno del rivestimento cutaneo una miscela di carni suine. Si presenta di consistenza morbida. Al taglio la fetta e` compatta, di granulometria uniforme e colore roseo tendente al rosso.
Il prodotto deve essere facilmente affettabile e tenere la fetta. Il gusto e` caratteristico. Secondo la tradizione, lo Zampone Modena IGP nacque nel 1511, a seguito della necessita` da parte degli abitanti di Mirandola di trovare una tecnica per conservare la carne di maiale, durante l’assedio dell’esercito di Papa Giulio II della Rovere. La leggenda narra che i maiali furono macellati per evitare che cadessero nelle mani degli invasori e le loro carni, macinate e insaccate nelle zampe dei suini, diedero vita ad un originalissimo prodotto che ebbe grande successo nei secoli a venire. Fu cosi` ideata la pratica di insaccare le carni prima nella cotenna, da cui ebbe origine il Cotechino, ed in seguito nelle zampe, da cui nacque lo Zampone.
Sul finire del XVIII secolo, la trasformazione in strutture piu` grandi delle prime due botteghe salumiere, Frigeri e Bellentani, ne favori` la diffusione nei mercati limitrofi. Riferimenti in merito si trovano in alcune lettere autografe di Gioacchino Rossini proprio al signor Bellentani di Modena.
Lo Zampone Modena IGP puo` essere acquistato fresco o precotto. In quest’ultimo caso, essendo chiuso e sigillato, puo` conservarsi per un piu` esteso periodo di tempo, senza che ne vengano in alcun modo alterate le peculiari caratteristiche organolettiche e gustative. Questo prodotto - dal sapore denso, forte e molto aromatico - e` tradizionalmente presente sulle tavole durante le festività del Natale ed a Capodanno. Viene servito a fette abbastanza spesse in abbinamento a lenticchie, ma anche con fagioli in umido, pure` di patate o spinaci al burro e Parmigiano-Reggiano.
Recentemente si sta apprezzando il gusto tipico di questo insaccato anche inserito in ricette originali, come ad esempio con spaghetti Thai, germogli di soia, salsa di ostriche e sesamo tostato.


Lenticchie storia di un simbolo

Le lenticchie, alimento base per i popoli nomadi fin dal Neolitico, assumono fin dalla coltivazione un significato ben augurale. La loro coltivazione inizia nelle terre dell’antico Egitto diventando subito un alimento nutriente di piccole dimensioni ma di grande spessore nell’arte del cibare. Dall’Egitto già nel 525 a.C. e precisamente dall’antichissima Pelusio sul Nilo che un mito vuole patria del grande Achille, si racconta che le navi egizie rifornivano regolarmente i porti di Grecia ed Italia di lenticchie. E da qui la lenticchia oltre che alimento diventa anche elemento d’ interpretazioni. Le lenticchie nell’antichità furono collegate simbolicamente anche alla morte. Basta rileggere il notissimo episodio scritto nel libro della Genesi dove ci racconta di Esaù che rientrato affamato dalla campagna, vide Giacobbe che aveva cotto un piatto di lenticchie. Quando gli chiese da mangiare poiché era sfinito, Giacobbe chiese in cambio la primogenitura, e Esaù accettò (cfr. Genesi 25,29-34). Quindi abdica a favore del fratello, di essere lui il padre, la guida ed il Re degli ebrei, combinando una compravendita cosi sfavorevole all'uno, quanto favorevole all'altro. E’ il primo cibo preparato dall’uomo del quale si ha testimonianza scritta, non meno di 4000 anni fa. Parafrase che si usa ancora quotidianamente nei modi di dire, delle persone che si vendono per poco, per un piatto di lenticchie appunto, che significa ricevere un valore bassissimo rispetto a quello che si dà in cambio. Da allora l’antica tradizione ebraica impone che gli Ebrei mangino lenticchie quando sono in lutto, in ricordo di Esaù per aver svenduto quanto aveva di più prezioso. Per millenni la lenticchia risulta uno dei prodotti più importanti nell’agricoltura e nel commercio del Mediterraneo e alimento fra i più comuni ed apprezzati ad Atene come a Roma dove Artemidoro, nato ad Efeso nel II secolo e vissuto a Roma, nella sua opera onirica “Interpretazione dei sogni” accomuna le lenticchie con l’annunciazione di lutti mentre Plinio li glorifica per il loro alto valore nutritivo e per la virtù di infondere tranquillità all’animo. Di quale sublime devozione era tenuta la lenticchia basterebbe conoscere la storia della colonna egizia del colonnato di Piazza S. Pietro, portato a Roma nel I secolo per volere di Caligola, l’obelisco attraversò il Mediterraneo su una nave immerso e protetto da un carico di lenticchie. Lenticchie servite in minestra, puls-lentis, da cui trae poi nome il pulmento, quindi con l'arrivo del mais trasformato in polenta. Ancora nei secoli dopo le lenticchie torneranno a tormentare i sogni adducendo fortuna o lutti a seconda di chi interpretava e gradiva questo piccolo legume. Nel Medioevo i ceti più abbienti, i nobili ricchi relegarono il consumo delle lenticchie alla mensa dei poveri, servite e mangiate quasi esclusivamente nei conventi e fra la gente, umile ma dotta, che diede alla lenticchia il ruolo che meritava, nutrire bene, piacere e costare poco. Ancora, come a rimarcarne l’inutilità come cibo goliardico fu definito nel Rinascimento, dal medico Petronio, cibo caldo e secco, adatto a coloro che vogliono vivere castamente.  In Francia al tempo di Luigi XIV le lenticchie venivano date come cibo ai cavalli e Alexander Dumas nel suo “Grand Dictionnair de Cuisine del 1873” le considerava un cibo pessimo. Come tutti gli alimenti e gli elementi destinati all’eternità la moda non ne intacca le virtù né li seppellisce. Cosi la lenticchia ha attraversato la simbologia del tradimento legandosi ai Patriarchi ed accompagnato lutti e morti, tormentato sogni e ricevuti superficiali giudizi da gente di spessore nobile ma leggera di gusto.
Annotiamo infine una curiosa credenza popolare sulle lenticchie. In quanto di piccole dimensioni, a parità di peso con altri legumi, si presentano nel piatto in numero maggiore. Perciò mangiare lenticchie nel primo giorno dell'anno, induce la famiglia a sperare di guadagnare un pari numero di monete d’oro.

Fonte: TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.





Zampone con lenticchie

Ingredienti per 4 persone

1 zampone da 1 kg, 250 g di lenticchie, 500 g di polpa di pomodoro, 30 g di pancetta, 1 cipolla, 1 costa di sedano, 1 carota, 1 foglia di salvia, olio, burro, sale, pepe


Procedimento
Lasciate le lenticchie in ammollo per 3 ore. Eliminate quelle venute a galla, sgocciolate le restanti lenticchie e lessatele per 1 ora e 30 minuti circa in acqua pochissimo salata.
Con un grosso ago praticate sulla cotenna dello zampone numerosi fori. Avvolgetelo in una garza o nella carta d’alluminio, immergetelo in una pentola d’acqua fredda, ponete sul fuoco, portate a bollore, poi lasciate sobbollire piano e a recipiente coperto per 3 ore abbondanti. In un tegame scaldate due cucchiai d’olio e una noce di burro, insaporitevi la foglia di salvia spezzettata, pancetta, carota, sedano e cipolla tutti ben tritati, mescolate. Dopo 10 minuti aggiungete
pomodoro, sale e pepe e cuocete per almeno 15 minuti. Sgocciolate le lenticchie e aggiungetele nel tegame della salsa, mescolate, fate insaporire per 10 minuti.
Ritirate lo zampone, lasciatelo riposare 10 minuti nella sua acqua, sgocciolatelo e tagliatelo a fettine, disponetele sul piatto da portata e intorno distribuite le lenticchie in umido. Servite ben caldo.



mercoledì 14 dicembre 2011

Ecccccoooomiiii!!! Un po' di storia di , come dire, di cucina.



Cuoco: il maestro del gusto

Nell’antica Grecia il cuoco era il personaggio importante nelle case dei potenti, tanto che malgrado le scarse notizie gastronomiche pervenuteci, qualche nome di cuoco è rimasto, per esempio quello del siciliano Ladbaco e Miteco, ricordati anche da Platone. Con le invasioni barbariche, questa figura subì un’eclissi da cui non si risolleverà per tutto il Medioevo. Anche nel Rinascimento il ruolo del cuoco rimase in secondo piano, livellato con quello dello “spenditore” e del “credenziere”, mentre al grado più elevato erano collocati, secondo un’organizzazione canonica nelle corti e nelle grandi famiglie italiane, i “tre principali di bocca” (scalco, trinciante, e bottigliere). Ciononostante il cuoco, in questa medesima fase, anche se obbligato a seguire le direttive impartite dallo scalco continuò a mantenere funzioni, prerogative e responsabilità che gli erano proprie, serbando l’appellativo di “ufficiale secreto dei nobilissimi Principi…” come scrive il Panunto .
A metà ‘500 fu Bartolomeo Scappi, cuoco del pontefice Pio V, a rivendicare una qualifica rapportata alla disciplina, tale da motivare il titolo di “maestro”. Ed è significativo che proprio alla fine dello stesso secolo Tommaso Garzoni, nella “Piazza universale di tutte le professioni del mondo”, veda nei cuochi gli “architravi” della “macchina bucolica” e i “protomaestri di ogni scienza”.
Solamente nel ‘700, quando lo scalco andò ad identificarsi nel “maggiordomo”, il cuoco conquistò diffusamente, partendo dalla Francia, la qualifica tanto agognata di “maestro”. E’ poi dall’ottocento, che grazie a cuochi come Careme, questa figura (acquisisce una insegna) diventerà “strategica” al punto da influenzare le decisioni politiche e sociali di “Potenti” e “Regnanti” (Congresso di Vienna).
A conferma dell’immortalità dell’arte culinaria, ancora oggi possiamo deliziarci con le “ricette” create dei cuochi dell’ottocento e del primo novecento, entrate ormai a far parte del patrimonio del gusto dell’umanità.


Uniformi di cuochi e personale di servizio

L’uniforme professionale dei cuochi, capisala e camerieri obbedisce tutt’oggi a un codice cromatico rigidamente imperniato sul bianco e sul nero. Prima dell’Ottocento, così come risulta da molteplici testimonianze, regnava fra le persone di servizio una diversità di colori e fogge.
Gli scalchi vestivano con un’eleganza degna dell’ambiente aristocratico in cui operavano. Nelle cucine cuochi e sottocuochi portavano il grembiule bianco, rimboccandosi le maniche e tenendo la testa coperta da cappelli e berretti. Solo gli addetti alle mansioni più umili, come i lavapiatti, operavano a capo scoperto e senza camicia. Ai vari addetti la preparazione dei piatti e del servizio era di norma raccomandato il color scuro, con abiti che s’ispiravano non ad un codice professionale unico, ma ai criteri di gusto della Corte dove operavano.
Lo scalco presentava l’eleganza di un gentiluomo, il trinciante si cingeva della spada, il credenziere addetto a fornire la parte più golosa del pasto (antipasti, insalate, confetture e frutta), seguiva la moda. Lo scalco aveva diritto in principio alla barba, ai baffi e, dalla seconda metà del ‘600 alla parrucca, mentre i subalterni dovevano preferibilmente essere rasi, come attestano le incisioni dello Scappi.
Insomma quanto più le mansioni erano direttive, tanto più si adottava uno stile cavalleresco, ma questo non impediva che le rispettive funzioni comportassero delle insegne di mestiere.
Per esempio, il trinciante addetto al taglio delle carni durante il servizio a tavola metteva un tovagliolo piegato per il lungo sopra la spalla sinistra (uso che sopravviverà alla scomparsa di questa figura, dall’Ottocento fino ai giorni nostri, nel tovagliolo posto sotto l’ascella e sull’avambraccio dei camerieri).
L’introduzione di un abbigliamento dallo stile cromatico rigido imposto a tutti, bianco in cucina e bianco-nero in sala, fu il frutto della nuova funzione dell’abito professionale dell’Ottocento.
Essa era ispirata da imperativi d’igiene e di cerimoniale. Il bianco, dalla giacca del cuoco alla tovaglia, alle stoviglie designava la pulizia impeccabile che doveva saltare all’occhio. Il nero lo portavano solo coloro che servivano con la precisa intenzione di incarnare un’eleganza compassata.
Con l’imporsi di questa rigida bicromia si voleva anche rafforzare l’aspetto militaresco della gestione ristorativa. I cuochi avevano giacche bianche con doppio petto e due lunghe file di bottoni, ridisegnate proprio a partire dalle giubbe dell’esercito, e portavano alla cintola il fodero di un coltellaccio, segno cruento dell’arte. Il personale di sala indossava la marsina con cravatta bianca, e solo il primo cameriere aveva il diritto a portare quella nera, simbolo assimilabile allo “scuro” come grado più elevato.


Toque blanche - simbolo del Cuoco

Il berretto da cuoco, “toque blanche”, è il simbolo della professione culinaria in tutto il mondo. Alfred Suzanne, illustre cuoco dell'ottocento, racconta che il termine "toque" non era gradito ai suoi colleghi dell'epoca, i quali non volevano dare al proprio cappello, cioè all'insegna classica della corporazione, lo stesso nome dato al copricapo dei professori universitari. Suzanne diceva che sarebbe stato più logico chiamarlo "couvre-chef" giocando sulla parola chef, che indica sia un capo in generale, sia colui che dirige la cucina. Ma sempre secondo Suzanne, si deve a Careme , l'idea di adottare per i cuochi questo particolare tipo di berretto. Nel 1823, quand’egli era ancora in servizio alla Corte di Giorgio IV d’Inghilterra, scorse un copricapo del genere in testa ad un praticante legale e subito il suo senso estetico e il suo amore per l’igiene ne furono colpiti. Fu lui stesso ad adottarlo nella versione bianca per sé e per i propri collaboratori. Si racconta abbia affermato che, sostituendo la cuffia di cotone (tipo il berretto da notte dei nostri nonni), copricapo comune a tutti i cuochi, si sarebbe dato loro un aspetto più importante e di maggior prestigio. Caréme non era soltanto un grande cuoco, ma anche un autentico opinion leader, ecco perché subito furono in tanti ad imitarlo. Prima dell'adozione della "toque" i copricapi dei cuochi variavano da nazione a nazione: gli inglesi ne adottavano uno di stile scozzese, gli spagnoli un berretto di lana bianca che corrispondeva a quello dei toreri, i tedeschi uno simile ad un copricapo militare. Curiose erano le considerazioni che un tempo veniva fatte sul modo di calzare la "toque", tanto da classificare il carattere di uno chef a seconda del modo in cui si sistemava il berretto.
Colui, per esempio, che era solito portarlo leggermente gonfio e pendente all’indietro, era quasi sempre un uomo autoritario, aggressivo e collerico. Lo chef che posava spavaldamente la toque inclinata su una parte dell’orecchio, era ritenuto uno spaccone e uno che si dava eccessive arie. Il berretto inamidato e con la parte pieghettata piuttosto alta, era adottato dai cuochi bassotti che cercavano così d'innalzarsi di fronte ai sottoposti.


Figure di Servitori

Già ai tempi dell'antica Roma esistevano diverse figure di servizio tutte biancovestite che attendevano al banchetto: il "Triclinarca" direttore dei servizi, i "Pincernaie" addetti a versare il vino, gli "Structores" dispensatori di vivande (camerieri), gli "Scissores" responsabili di tagliare le carni. Fu però nel Rinascimento che queste figure assunsero ruoli ben definiti.

Lo Scalco
Il termine deriva dal gotico "skalke" (servo) ed entrò nell'uso intorno al Trecento per designare l'arte dello scalcare, cioè di tagliare e dividere le carni.
Nel XVI sec. la scuola italiana veniva reputata fra le più prestigiose. I nobili francesi, tedeschi e persino inglesi, mandavano i propri figli in Italia sia per studiare la scherma che l'arte di trinciare pavoni, capponi, cinghiali e selvaggina varia.
La carica di scalco trinciante era onoratissima presso tutte le corti, e comprendeva in genere, oltre all'incombenza diretta per l'azione specifica del trinciare le carni, anche una sovrintendenza generale sugli approvvigionamenti, sulle cucine e sulla tavola dei nobili padroni. Poi vi fu la tendenza a dividere le mansioni dello scalco in scalco vero e proprio con funzioni di maggiordomo ed economo, assistito da un trinciante e da un coppiere che, ovviamente, si occupava delle bevande.
Per una tradizione che risaliva addirittura a Carlo Magno, nelle corti principesche e ducali lo scalco era un nobile, almeno come titolare. Uno scalco di classe faceva onore al suo padrone, il quale non lesinava certo doni e prebende. Occorreva diplomazia nel conoscere i gusti dei commensali e nell'attribuire loro la parte spettante secondo una precisa graduatoria.

Il Trinciante
Non potevano aspirare a questo “titolo” certi trinciatori di case di poco conto, che con un canovaccio alla cintura e le maniche rimboccate come beccai, tagliavano pollame e carni con gran coltelli sopra gran taglieri, senza seguire regola alcuna e senza tirocinio o studio.
Il trinciante doveva trinciare, dinanzi al proprio padrone o bene in vista, e scegliere forcine e coltelli adatti a ciò che doveva tagliare.
Il trinciante si presentava con le forcine e i coltelli poggiati su di un tondo, solitamente di peltro o di un metallo più prezioso, ricoperti da una salvietta. Nel tondo vi era anche una saliera. Teneva un altro tovagliolo sulla spalla sinistra per pulirsi le mani. Tagliava le varie carni e poi le poggiava sui tondi del padrone e dei commensali, cospargendole con un po' di sale, sparso dalla punta del coltello stesso. Il trinciante, di tutto ciò che tagliava, poteva scegliere una parte abbastanza degna come proprio cibo.

Il Coppiere
Doveva avere dei requisiti personali ben precisi: essere giovane, garbato, né troppo bello né troppo brutto, allegro, costumato, discreto, dalle mani bianche e delicate. A una delle dita doveva portare un anello prezioso, il suo abito doveva essere lungo e drappeggiato, in capo doveva portare una berretta da prete, ai piedi doveva avere calze scarlatte e scarpe di velluto nero.
Doveva porgere la coppa, coperta da una salvietta, con mano ferma, scoprirla, versare il vino, allungato con l'acqua, come usava a quei tempi, e sistemare sotto la coppa un piatto concavo.

Lo Spenditore
Era l'addetto alle provvigioni e questi erano i requisiti necessari: capacità di scegliere fornitori onesti, saper acquistare bene le merci, controllarle al loro arrivo badando che le stesse fossero consegnate nei loro canestri puliti e chiusi a chiave, perché gli sguatteri non potessero approfittarne.
In particolare, oltre che capace, doveva essere onesto, saper leggere e scrivere, avere buoni gusti, essere pulito. Da lui ci si attendeva che la dispensa fosse sempre fornita e che si accorgesse subito se qualcosa stava andando a male.


Fonte: TaccuiniStorici.it testata di Alex Revelli Sorini - Rivista multimediale curata in collaborazione con l' Accademia Italiana Gastronomia Storica dove si propongono storie e tradizioni della cultura gastronomica mediterranea.


domenica 11 dicembre 2011

Tranquilli non sono sparito


Prossimamente qualche altra ricettina, per ora gustiamoci questa piacevole canzone.